Ieri sera è tornato il momento di prendere la vespetta come avevo fatto l’altra volta. L’occasione è stata la premiazione del concorso “Rac-corti, ministorie per chi va di fretta” organizzato da flanerí, presso il caffè letterario Mangiaparole. Il racconto col quale ho partecipato e che che è stato inserito nell’antologia del concorso si intitola “Controlla se c’è l’ascia”. Lo ri-propongo qui, se volete commentare siete i benvenuti.
Controlla se c’è l’ascia
Lo zio di Jerry ci chiese se volevamo andare a stare da lui. Dopodiché scolò la sua birra, schiacciò la lattina con una mano e la lanciò all’indietro. Era notte, sopra le nostre teste le fronde nere degli alberi si stagliavano contro il cielo stellato. Avremmo potuto arrangiarci nella sua casa-roulotte, fosse anche con un cuscino e una coperta per terra, ma decidemmo di non accettare l’invito. Avremmo solo tenuto gli occhi ben aperti, quello sì.
All’università le sessioni estive stavano per iniziare e per risparmiare sull’affitto Jerry ed io decidemmo di andare a stare nel bosco per un po’, almeno fino a quando non fosse arrivato l’autunno. Avevamo trovato una radura fra i pini a metà strada fra la città e il trailer park dove stava Jim. Io mi ero procurato una tenda, Jerry invece dormiva nel suo furgone attrezzato a camper. Ogni mattina scendevamo in città, facevamo il giro delle case dei nostri amici per vedere se potevamo scroccare una doccia, oppure ci davamo una sciacquata nei bagni della facoltà. Poi io andavo a lezione mentre Jerry, dopo aver bighellonato per un po’ nel campus, andava a lavorare. Da qualche mese lo avevano assunto come aiuto cuoco in un ristorante in città, cosa di cui andava molto fiero.
Jim era andato a vivere nella roulotte (che poi era una casa con le ruote) dopo un ennesimo litigio con sua moglie. Ci sarebbe rimasto finché le cose non si fossero sistemate. Ora era passato un anno e si era anche comprato delle seggiole e un tavolino dove noi sedevamo a bere birra e a guardare le stelle. Ma magari poi le cose si sistemano.
Nella cucina del ristorante dove lavorava Jerry era appena arrivato William, assunto come lavapiatti. Quando Jerry lo vide capì subito che quello era il tipo giusto da andare a punzecchiare, cosa che a lui piaceva fare. William gli chiese se conosceva un posto dove poter dormire e Jerry lo invitò a venire con noi nel bosco. E così una sera, mentre stavamo seduti intorno al fuoco, lo vedemmo arrivare su una bicicletta alla quale aveva attaccato un rimorchio coperto da un telone.
Lo zio di Jerry diceva di fare attenzione a quel tipo e di chiedersi perché uno a quarant’anni fa ancora il lavapiatti.
“C’é qualche cosa che non quadra” diceva Jim “Non la racconta giusta”.
Ma lo zio di Jerry diceva anche tante altre cose. Era sempre sospettoso, inacidito dalla sua stessa esistenza, sempre in attesa che le cose si sistemassero.
A Jerry piaceva parlare con chiunque, faceva domande, raccontava le sue storie e non ci volle molto perché entrasse in confidenza con William il quale, invece, non parlava quasi mai. Era chiuso nella sua timidezza, con lo sguardo sempre impaurito, in attesa che gli succedesse qualcosa. Quando stava nel bosco voleva sempre giocare a carte e il più delle volte lo faceva da solo. Si metteva in testa una fascetta alla quale aveva fissato una piccola torcia, come quelle che si usano per esplorare le grotte. Stava lì seduto a fissare il cono di luce che gli usciva dalla fronte e ogni tanto mischiava le carte. Altre volte invece si metteva a rovistare nel rimorchio e frugava sotto il telone. Ci passava ore lì sotto, ma che cosa ci tenesse, su quel rimorchio, non riuscimmo mai a capirlo.
“Questa volta ne ho una da raccontarvi che non ci crederete” disse Jerry con un ghigno una sera che stavamo bevendo insieme a Jim. Disse che aveva parlato con William, lo aveva stuzzicato, gli aveva chiesto da dove diavolo se ne fosse uscito. E allora William, come per liberarsi di un peso, gli aveva confidato che era scappato dal suo lavoro precedente perché durante una lite col suo capo gli aveva tirato un’ascia in testa. Lo sguardo che deve aver avuto mentre si scagliava contro il suo ex-capo gli era rimasto impresso sul volto, indelebile. Ancora gli si leggeva negli occhi la paura e la rabbia. Come il cane che, riuscito a slegarsi dalla catena, va subito a mordere il padrone.
Jim ci disse che se volevamo poteva prestarci la sua pistola ma Jerry gli rispose che non era il caso. La sua pistola, Jim, minacciò di usarla anche contro il suo vicino di roulotte, quello che ogni volta gli diceva di aver visto sua moglie in città.
“Non me ne frega un cazzo” diceva Jim.
“Lo faccio per te” rispondeva il vicino, “Non vorrai mica che si metta in qualche guaio, o che vada in giro insieme a qualche balordo”.
“Ho detto che non me ne frega un cazzo” ripeteva lo zio di Jerry “e la prossima volta che nomini mia moglie ti giuro che ti faccio secco”. Lo disse mimando il gesto di sparare, poi ci guardò facendosi forte dietro a una risata sguaiata. Jerry scolò la birra, fece un rutto, guardò suo zio e gli disse: ”Non è il caso”.
Alla fine William sparì all’improvviso. Al ristorante dissero che se ne era andato senza dire niente. Non aveva neanche ritirato il suo ultimo stipendio. Jerry pensò che forse William aveva provato a tornare da sua moglie, quella che l’aveva cacciato dopo che lui s’era fatto mettere in prigione. “E’ stato solo per un mese” ripeteva lui, “solo un mese”. Ma lei non ne volle sapere. E fu in quel momento che ebbe inizio il suo girovagare con la bicicletta e con il rimorchio.
“Ve l’avevo detto! Ah, lo sapevo che era un balordo” disse lo zio di Jerry “Mai fidarsi di uno che a quarant anni fa ancora il lavapiatti, voi non potete capire perché avete vent’anni, ma è così”. “Venticinque” lo corresse Jerry.
“e comunque forse hai ragione tu, ma uno ci spera sempre.
Magari le cose si sistemano”.