In un ipotetico albero della conoscenza e delle relazioni fra persone, Ken Kesey se ne starebbe seduto su un ramo in buona compagnia. Provando a ipotizzare coppie e gruppi in base a un [tema] comune, vicino a Kesey metterei Timothy Leary [LSD]. Un’altra coppia sarebbe Kesey – Neal Cassady [merry pranksters]. Cassady sarebbe necessariamente raggruppato anche con Jack Kerouac [On the road, beat], Allen Ginsberg e Gary Snyder. (Qui ho provato a scrivere di quanto Snyder sia stato beat e di quanto in realtà sia molto di più). E quindi, un altro accoppiamento: Snyder – Alan Watts [buddismo zen]. Il gioco potrebbe continuare all’infinito ed è esattamente questo il metodo che ho sempre seguito, procedendo a macchia d’olio, per nutrire la mia sete di conoscenza. Quattro dei nomi citati: Leary, Ginsberg, Snyder e Watts, nel febbraio del 1967 si sono trovati a bordo della houseboat di Watts e hanno dato vita a quello che verrà poi ricordato come l’Houseboat Summit. Il dialogo a quattro è stato registrato e trascritto ed è disponibile in vari posti on line. Per esempio qui (audio), e qui (trascrizione in tre parti).
Il dialogo procede in maniera erratica ma gravita intorno a un unico tema: to DROP OUT, inteso come il ritirarsi, il chiamarsi fuori, il scegliere di non appartenere alla società e all’ordine costituito. Erano quelli gli anni nei quali il movimento hippy stava esplodendo e sempre più persone sceglievano la via del drop out. Ingegneri, professori e avvocati abbandonavano le università, uscivano dai tribunali e provavano a vivere al di fuori. (Sì, non si trattava solo di orde di sbandati drogati e seguaci della filosofia del fancazzismo). E allora, i quattro dell’houseboat, ponendosi al fianco di queste persone, si chiedevano cosa avrebbero potuto fare per loro, quale potesse essere un giusto equilibrio tra il buttarsi completamente in una sotto cultura e il mantenere contatti con la società convenzionale. In quel dialogo vengono fatte citazioni e riferimenti a elementi storici e antropologici, a come le società si sono evolute, al ruolo delle religioni, alle differenze fra il senso di ordine e organizzazione occidentale e quello orientale. La differenza fra un tipo di organizzazione politica e una di tipo organica. E ancora, i quattro discutono su come la colonizzazione delle Americhe abbia estirpato il modello tribale che aveva resistito e funzionato per secoli. Anche il sistema educativo viene messo in discussione in quanto incapace di fornirci tutta una serie di competenze pratiche che in realtà sarebbero le uniche veramente necessarie. In sostanza, si chiedevano i quattro: cosa possiamo dire a tutte queste persone che scelgono la via del drop out, che tipo di suggerimenti pratici possiamo fornire loro?
Leggendo e ascoltando le parole dei quattro non ho potuto non provare un sentimento di tenerezza, di nostalgia per quel tipo di discorsi e di visioni. Negli Stati Uniti, negli anni novanta, mi è capitato spesso di incontrare persone che ancora cavalcavano il sogno del free living, del nomadismo geografico e culturale. Gente che si nascondeva fra le pieghe della società, salvo poi ricomparire silenziosi, e anche un po’ incazzati, per lavorare a un distributore di benzina e mettere insieme quei quattro soldi che gli avrebbe garantito il prossimo pasto. Gli Stati Uniti sono ancora il paese dove, da una parte la presenza della società e di un ordine imposto si sente con maggior pressione ma, allo stesso tempo, e grazie anche alla conformazione del territorio, è più facile nascondersi e vivere in una propria bolla di autosufficienza.
Se può avere un senso, mi chiedo quanto quei discorsi siano rilevanti oggi. Oggi che la fiducia nell’ordine costituito, in senso di organizzazione politica e sociale, è ridotta ai minimi termini. Quanto veramente riusciremmo ad essere autosufficienti? Quanto ci verrebbe permesso di farlo? Quanto radicale sarebbe una scelta del genere? Quanto sarebbe una via senza ritorno? Ma soprattutto, quanto, veramente, vorremmo farlo, e quanto invece, tutto sommato, ci va bene cosi?
Avevo iniziato con Ken Kesey, uno che ne ha fatti di chilometri nel Grande Vuoto Americano. Di questo, Kesey parla in un’intervista (del ’94) al Paris Review. Per Vicolo Cannery ho tradotto alcuni passaggi dell’intervista così come riportati in un articolo dell’Harper’s Magazine. Questo il link alla traduzione.