Il primo racconto che ha compiuto l’intero percorso, dalla mia mente a un file sul computer, fino alla pubblicazione (in un’antologia legata a un concorso) è “J.”. Si tratta di un micro-racconto. Lo riporto qui sotto e poi continuo.
J.
Nella foto Josh è in pantaloni corti e mostra orgoglioso una bicicletta, forse un regalo, dietro di lui un prato fiorito e il cielo azzurro; nell’altra foto Jerry è a torso nudo, un paio di jeans, e sta seduto sul cofano di un’automobile, sullo sfondo la strada sterrata ed il cielo infinito.
La mamma di Josh ogni domenica lo porta al centro commerciale; la mamma di Jerry, per arrotondare, la domenica si dedica al commercio, delle droghe leggere.
Josh da bambino si è fatto un taglio su un dito, ha succhiato il sangue e gli è piaciuto il sapore; Jerry non è mai stato bambino.
Ora Josh ha una volvo station vagon gialla; Jerry gira in motocicletta.
Josh è un hippy con i capelli lunghi; Jerry i capelli li tiene corti.
Josh ha una folta barba castana; Jerry ha un musetto glabro da coniglio.
Josh vuole farsi i dread; Jerry tiene i capelli corti perché se no non gli danno un lavoro.
Josh va a prendere la marijuana da un suo amico che la coltiva in casa; Jerry la compra dietro la stazione degli autobus.
Josh studia psicologia al college; Jerry ha tre lavori.
Josh passa le vacanze in Messico nella casa di suo padre; Jerry in Messico c’è stato una volta che ha combinato un casino e doveva sparire per un po’.
Josh dopo il college vuole trovarsi un lavoro; Jerry lavora per potersi pagare il college.
Josh vuole sempre arrivare primo in tutto quello che fa; a Jerry basta partecipare.
Josh ha sposato una ragazza bionda e sono andati a vivere in una casa fuori città; Jerry ha avuto due figli da due donne diverse senza sposare nessuna delle due.
Josh si è arruolato perché anche suo padre era militare; Jerry si è arruolato perché voleva uno stipendio sicuro per mantenere i suoi figli.
Sul giornale, nelle foto in bianco e nero, sia Josh che Jerry hanno i capelli corti.
Josh è morto in Afganistan il 23 marzo; Jerry il 28.
Ho avuto modo di far leggere questo breve testo ad alcune persone e, in un lampo di intraprendenza, anche di leggerlo pubblicamente. Un commento che mi è stato fatto più volte è questo: perché nomi stranieri? perché un’ambientazione americana? Ragazzi così ci sono anche a Rapallo o a Busto Arsizio. Anche ragazzi italiani sono morti in Afganistan. Certo, rispondo io, ma il fatto è che quei ragazzi di Busto Arsizio io non li ho conosciuti. Ne ho conosciuti altri, in altri luoghi – persone e luoghi che sono entrati a far parte della mia biografia. Persone e luoghi che riempiono una grande porzione del mio bagaglio di esperienze di uomo e che, inevitabilmente, si riversano in quello che scrivo; fungono da input per la mia immaginazione.
È proprio necessario che io, italiano, scrivendo nella mia lingua madre, “traduca” i miei ricordi per ambientarli in un contesto più vicino alla realtà del lettore italiano? Secondo me no. Un altro mio racconto è ‘Controlla se c’è l’ascia‘. In questo caso i riferimenti alla periferia rurale americana, a personaggi e a un mondo white trash sono più evidenti. Come si potrebbe riportare tale ambientazione in Italia? O meglio, si potrebbe benissimo: ci sono certamente situazioni paragonabili a quelle del racconto anche in Italia. Il fatto è che io non le ho mai incontrate. Provare a ricrearle sulla base di esperienze parallele, ma distanti migliaia di chilometri, mi sembrerebbe azzardato.
Qualche settimana fa Paolo Zardi mi ha chiesto se volessi contribuire con un mio racconto al suo -Inserto del Lunedì-. Io, onorato, gli ho mandato un racconto che ha come protagonista un ragazzo che si chiama Ray che ama giocare ai casinò di Las Vegas. Come spiega Paolo in questo post, su suo suggerimento (e perché nutro una stima enorme per lui, come uomo e come scrittore) ho provato a italianizzare il racconto: Ray è diventato Dario e Las Vegas Lugano.
Le ragioni, tutte legittime, che hanno portato Paolo a propormi di ambientare il racconto in Italia erano: l’effetto un po’ straniante di sentire una voce americana (ammesso che la mia lo sia) che racconta storie italiane; e il fatto che probabilmente molti italiani hanno ambientato la loro storia in America per renderla più cool e questo ora rende più difficile accettare che un italiano scriva onestamente storie ambientate laggiù.
Il mio tentativo di rispondere alla proposta di Paolo però, non ha funzionato. Il racconto è poi stato pubblicato nella sua versione originale a cui è seguita, nel post che ho già citato, una riflessione di Paolo il quale racconta questa stessa vicenda e conclude con una domanda: un’opera è veramente separata dal suo autore? Nel suo post, Paolo ne cita uno di Massimiliano Santarossa (nel sito della Scuola Twain) il quale riflette su un argomento molto simile: quanto conta “l’immagine” dello scrittore agli occhi del lettore? Santarossa afferma che, per esempio, leggere i libri di Emanuele Tonon senza conoscere il suo passato da frate francescano e da operaio della sedia, non avrebbe lo stesso impatto sul lettore. Oppure, per stare negli esempi di Santarossa, scoprire che le descrizioni della vita di montagna di Mauro Corona fossero state scritte da un simpatico neolaureato in sociologia. Bene, in che modo queste informazioni farebbero cambiare le emozioni (o mancanza di emozioni) che si provano durante la lettura? Il giudizio (positivo o negativo) su un testo, cambierebbe se conoscessimo la biografia di chi l’ha scritto?
Secondo me, ciò di cui stiamo veramente parlando è (anche) del concetto di credibilità. Ovvero, dopo aver letto un testo e, diciamo, averlo apprezzato, sapere che il suo autore ha veramente fatto esperienza personale di ciò di cui scrive è un’ulteriore conferma della sua validità. Detto questo, è anche vero che esistono splendidi esempi di autori che sono stati capaci di descrivere mondi con minuzia di particolari senza averci mai messo piede. Sono convinto che un racconto (o in generale un’opera) se di valore, ha una vita propria, sta in piedi da solo e brilla di luce propria. Le informazioni su chi l’ha scritto vengono dopo; possono essere interessanti, utili, ma non necessarie.
ps: il titolo di questo post e l’immagine (uno zoom sulla mia pupilla) sono dovuti al fatto che, scrivendo, mi è venuta in mente una possibile analogia fra il rapporto opera-biografia dell’autore e occhio-mente. Se guardo gli occhi di una persona non posso vedere tutto ciò che sta dietro, nella mente, nei pensieri, nella vita di quella persona ma è pur vero che soltanto guardando gli occhi di qualcuno si possono intuire tante cose. Allo stesso modo, mi sembra, leggendo un racconto l’attenzione è fissata su quello spazio fra il primo paragrafo e l’ultimo ma, inevitabilmente, i nostri occhi da lettore vanno oltre, cercano di capire (o intuire) come possa essere la mente di chi ha scritto quelle parole.