Io sono Jobal

jobal

Jobal è l’unico che non dorme in tenda: si è sistemato in una roulotte con Maria. Jobal è un ragazzone biondo e riccio, sempre in abiti da lavoro verde mimetico, e porta un paio di occhiali a montatura spessa tenuta insieme da pezzi di nastro adesivo. Jobal è un vulcano. È un’esuberanza quasi innaturale ma assolutamente spontanea. La cosa che sorprende di più è che non smette mai: dal primo mattino, quando si apre la porticina della sua roulotte, attraverso la quale passa a malapena, fino a sera, quando ci saluta con la birra in mano, fa un rutto e si ritira nella scatola di metallo, il suo nido con Maria. Ogni giorno si inventa qualcosa, costruisce qualcosa, poi ci gioca, poi la smonta, poi la dimentica. In continuazione.

Una sera, tornando al campo, lo vedemmo chinato a scavare una buca oltre la strada sterrata, a una ventina di metri dalle nostre tende. Il giorno dopo capimmo qual era l’invenzione alla quale stava lavorando. Arrivò col suo pick up e nel cassone, coperto da un telo, aveva un generatore che con urli e imprecazioni, dimenandosi come un forsennato, riuscì a calare nella buca scavata il giorno prima. Poi tirò un cavo elettrico fino al campo, interrandolo nel tratto che attraversa la strada, attaccò una presa a un albero e subito dopo riapparse con un sorriso giulivo, splendida giornata oggi, eh? Quindi iniziò a radersi con un rasoio elettrico. Ripeté la scenetta per qualche giorno, poi anche il rasoio, la presa e il generatore finirono nel dimenticatoio. Nelle settimane successive si inventò una rete a strascico con la quale provò a pescare tenendola agganciata al retro della canoa mentre girava per il lago pagaiando felice come un bambino. Infine costruì una sorta di gazebo collegato alla sua roulotte dove iniziò ad accumulare i pezzi che utilizzava per le sue invenzioni: tronchi, motoseghe, teli, corde e ora anche il generatore e la rete per pescare. Per il resto, anche se quando iniziava a parlare era difficile farlo smettere, di lui, di chi era veramente, di come era arrivato nel bosco, sapevamo ben poco. La sua storia la venni poi a sapere quando ebbi modo di parlare per qualche giorno con Maria.

Avevo quasi finito il percorso che mi ero prefissato per la giornata. Ancora un paio d’ore e avrei raggiunto il pick up per tornare al campo base. Mi trovavo su un pendio ricoperto da un morbidissimo prato che finiva, più in basso, su un dosso coperto da vegetazione fitta. Proprio da quelle parti avrei impiantato il punto di osservazione e iniziato a effettuare le misurazioni. Subito prima che iniziassero gli alberi notai il ceppo di un albero segato qualche anno prima. Ce n’erano altri in giro ma quello che vidi davanti ai miei passi era un po’ più alto degli altri. Ci salii sopra con un balzo e, come su un piedistallo, mi fermai un momento a guardare lontano. Poi con un balzo saltai giù e all’impatto con la terra sentii un dolore pungente sotto la pianta del piede destro. Mi piegai per guardare lo scarpone: era stato un chiodo, attaccato a un’assicella, probabilmente un segnale che era caduto da dove era stato affisso. Il chiodo entrò dritto nel mio piede, la calza si inzuppò di sangue e dovetti raggiungere il pick up saltellando.

A causa di quell’incidente dovetti stare fermo per quasi una settimana e, a dire il vero, accolsi con piacere quei giorni di riposo forzato. Mi alzavo tardi, mangiavo con più calma e passai parecchio tempo girovagando per il lago con la canoa. Tutti gli altri erano nel bosco a lavorare e al campo base c’ero solo io, anzi, c’era anche Maria. Sbucava dalla roulotte solo un paio di volte al giorno per stendere i vestiti sporchi di Jobal e per bagnarsi nel lago. I primi due giorni ci scambiammo solo un breve saluto di cortesia. Nessuno di noi fece la prima mossa anche se ci scrutavamo. La vidi guardare fuori dalla finestra della roulotte, parzialmente coperta da una tendina, forse voleva controllarmi. Io invece, facendo finta di dormire sul prato, la guardavo mentre faceva il bagno nel lago. Era una visione splendida, certamente enfatizzata dal fatto che per settimane non avevo visto altro che uomini sporchi e rozzi. Il suo corpo che fuoriusciva dall’acqua, il vestito e i capelli bagnati, la facevano apparire come una figura mitica, selvaggia e splendida. Il terzo giorno, finalmente, quando i nostri sguardi si incontrarono, la invitai a sedersi sul prato e le offrii un po’ del caffè che avevo preparato. Si sedette ad alcuni metri di distanza, timidamente, poi, dopo che io provai a rompere il ghiaccio con alcune frasi buttate a caso, iniziò a parlare e non smise più.

Randall Kowasky è nato e cresciuto in un piccolo paese circondato da campi di grano. Fin da piccolo ha avuto una corporatura più grande in confronto a quella degli altri bambini e, a dispetto di una testa coperta da riccioli biondi, gote rosse e un viso da bambino, si è sempre portato appresso goffamente quel corpo sproporzionato.  Ciò che lo ha costantemente reso vittima degli scherni dei suoi compagni però non era tanto il suo fisico da gigante, quanto il suo carattere riservato e il suo fare impacciato e maldestro. Emarginato dalla maggior parte dei suoi coetanei, Randy ha passato gli anni dell’adolescenza chiuso in un mondo tutto suo, che ha sempre custodito gelosamente. In realtà Randy era più maturo dei suoi coetanei ma il suo andamento ciondolante e spaesato lo faceva apparire come un diverso, il bambinone strano, facile preda di scherzi sadici, dei quali spesso non si rendeva neanche conto. Risulta quindi comprensibile che, appena conseguito a fatica il diploma di scuola superiore, Randy abbia inforcato la sua bicicletta e, zaino in spalla, si sia messo in viaggio.

Pedalando incessantemente ha macinato centinaia di chilometri, dormendo spesso sotto le stelle e guadagnandosi il necessario con lavoretti temporanei. Chino sulla sua bicicletta, settimana dopo settimana, con le ruote dirette a sud raggiunse il confine con il Messico, lo attraversò e andò avanti. Pochi chilometri oltre il confine col Guatemala, nei pressi di El Jobal, la sua vita cambiò.  Al paese ci arrivò costeggiando un altipiano e poi scendendo lungo una strada ripida a tornanti. Inebriato dal sole, dal vento nei capelli, dalla velocità, o semplicemente dal suo essere libero, a pochi tornanti dal paese Randy non si accorse di uno scuolabus che stava arrancando in salita. Non fece neanche in tempo a vederlo: subito dietro una curva si schiantò frontalmente contro il bus giallo.

Rimase incosciente per alcune settimane, immobile in un letto di ospedale. Il volto angelico di Maria, l’infermiera che era stata al suo fianco quando gli occhi erano chiusi, fu la prima cosa che vide quando si svegliò. Lei era splendida, lui era vivo e gli parve di essere atterrato in paradiso. Fu come se tutti i suoi contatori interni si fossero azzerati e gli fosse stata regalata la possibilità di ripartire da zero. Tutto nuovo, tutto splendido, tutto incredibilmente magico. Decise di abbracciare la nuova vita cambiando nome: prese quello del paese dove la sua vita aveva cambiato direzione. Io sono Jobal disse, poi chiese a Maria di accompagnarlo nel suo nuovo viaggio, la nuova occasione che gli era stata regalata. Decisero che da quel momento in poi avrebbero passato la vita insieme, vivendo ogni momento come fosse l’ultimo.

Maria parlava e a me sembrò di scorgere un velo di tristezza sul suo volto. Glielo feci notare, ma lei non rispose. Dopo l’incidente di Randy anche la sua vita era cambiata. Lo aveva accudito per settimane in ospedale e ora continuava a stargli accanto nel suo nuovo viaggio, il loro viaggio. Poi le versai ancora un po’di caffè, ma ormai aveva finito di parlare.

L’immagine di copertina viene da questa pagina:

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American Country

fotografie dall’America più remota.

Nella stessa serie:

 

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