Now and Zen

zen

Alle 10:30 di un sabato mattina di oltre dieci anni fa mi sono presentato al dojo. Per arrivarci mi ero perso, forse girandoci intorno, nel groviglio di paesi che riempiono la periferia milanese – tutti con il nome che finisce in “ago” o in “ate” o in “ano”. Poi, seguendo le indicazioni di edicolanti e di persone a spasso col cane, sono arrivato, puntuale.

Il dojo era nel seminterrato di una palazzina bianca, anonima e dignitosa, in perfetto stile brianzolo. All’ingresso mi ha accolto una donna coi capelli cortissimi, grigi, quasi lucenti, e un sorriso gentile e trattenuto. Ero il primo – gli altri stanno arrivando – e il locale del dojo era ancora spoglio. Solitario, al centro della stanza piastrellata di bianco, appoggiato a una parete, un altarino con una piccola statua del Buddha e un vaso pieno di bastoncini di incenso. In un angolo della stanza ho notato cavalletti e avanzi di un corso di pittura (emozionale, come ha precisato la donna): una della attività del centro culturale del quale ora non ricordo il nome, ma ricordo che assomigliava al nome di un dio indiano, o forse a una marca di tè, o a un super eroe giapponese. Dopo pochi minuti sono arrivati gli altri: un gruppetto eterogeneo di uomini e donne, giovani e meno giovani, alcuni con lo sguardo illuminato, altri semplicemente stanco. Alcuni di loro si sono cambiati e hanno indossato un kimono blu scuro di stoffa pesante, gli altri erano vestiti di nero, come me, come mi era stato raccomandato quando li avevo contattati. In pochi minuti, spostati i cavalletti e i pennelli, magicamente è apparso il tempio: un’area delimitata da cuscini neri disposti a formare un quadrato. Intanto qualcuno aveva acceso gli incensi. Forte delle mie esperienze precedenti mi sono posizionato in fondo alla fila e ho iniziato a copiare i gesti che facevano gli altri. Già all’ingresso del tempio, al primo cuscinone, devo aver sbagliato qualcosa: il primo piede che entra deve essere il destro, o era il sinistro? E poi le mani, unite in preghiera sullo sterno, gomiti larghi – beh, ma su quello ci possiamo lavorare, mi hanno rassicurato alla fine. Ho anche urtato uno dei cuscini a terra, mi avrà visto qualcuno mentre col piede lo rimettevo a posto? Poi i canti e poi il silenzio dello zazen. E poi nient’altro perché in quel dojo non ho più messo piede, né in nessun altro dojo di nessuna provincia italiana.

Tornando indietro di altri cinque anni, sono sdraiato sul prato di una cittadina del midwest americano in una splendida giornata di primavera. La bicicletta appoggiata a un faggio centenario e io alla sua ombra, immerso nella lettura di Zen in the Art of Archery di Eugen Herrigel. Immerso nelle fasi del suo tirocinio, immaginando fosse il mio, desiderando che fosse il mio: la ricerca di un Maestro, la ricerca del gesto giusto, l’unico possibile. Farsi attraversare dal gesto, essere il gesto. In un colpo solo, arco, freccia, bersaglio e l’Io si intrecciano in modo che non è possibile separarli: la freccia scoccata mette in gioco tutta la vita dell’arciere e il bersaglio da colpire è l’arciere stesso. Ci provavo, io, pedalando verso casa, in mancanza dell’arco. Pedalate lunghe e armoniose, i polmoni e i muscoli, e il cuore, all’unisono. E le ruote, ronzio sul cemento, e i pedali e la giusta tensione della catena. Ci provavo, io, allora.

Qualche mese fa, a margine dell’ultimo libro di Emmanuel Carrére, Il regno, in un’intervista, lo scrittore ha affermato: “Sono cresciuto dentro al cristianesimo e una delle domande che mi hanno spinto a scrivere questo libro è: quando si appartiene a una cultura cristiana e però non sei più credente, cosa resta?” Già, cosa resta? Dove si va a sbattere la faccia? Cosa c’è quando non c’è la fede? Per me, con un passato da chierichetto di paese, nipote di un nonno che recitava il rosario in camera tutte le sere, e figlio di un padre che palesemente si addormentava in chiesa (fino a quando, in blocco, abbiamo smesso tutti di andarci), per me, quindici anni fa, c’è stato lo Zen.

Al libro di Herrigel ero arrivato partendo da quello che è rimasto un caposaldo della mia storia di lettore. Un libro di quelli che dopo puoi ricordare con precisione i libri che hai letto prima e i libri che hai letto dopo. Il mio libro spartiacque è stato Zen and the Art of Motorcycle Maintenance (ZAMC). Da lì in poi tutta una serie di libri con la scritta zen in copertina: libri letti, sottolineati, tradotti mentalmente. Dei libri zen che tuttora occupano la sezione orientale della mia libreria, almeno due hanno avuto per me un valore importante: The Way of Zen di Alan Watts, perché è un pilastro della letteratura zen, perché è stato uno dei primi testi sullo zen scritto in lingua in Inglese e ha contribuito enormemente alla divulgazione dello zen in occidente, e poi perché Alan Watts è Alan Watts. L’altro, Zen Training di Katsuki Sekida, è invece l’unico testo nel quale ho trovato spiegazioni “scientifiche” dell’atto meditativo (the physiology of attention) e degli effetti della respirazione sull’attività cerebrale. In quel modo l’autore ha tracciato una linea di congiunzione tra oriente e occidente, tra un atteggiamento mistico e quelle certezze scientifiche che tanto piacciono a noi bianchi europei.

Sono stati mesi di profonda stimolazione intellettuale, come raramente mi era successo in passato, e ciò che leggevo con gli occhi andava a nutrire e a fortificare la mente, il corpo e lo spirito, in un processo nel quale le parti diventavano un’unità inscindibile. Era l’essenza del mio essere Io che cresceva. L’eco delle pagine lette di notte si riversava nelle mie azioni il giorno successivo, fino all’illuminazione, che si è rivelata sotto forma della consapevolezza che tutto ciò che è zen non lo si può scrivere. E allora, incolonnati i libri contro il muro ho cominciato a sedermi, ad accogliere le prime ore del giorno nella posizione dello zazen, la pratica di meditazione, seduti a gambe incrociate, schiena dritta e respirare, respirare, svuotare la mente e respirare.

Mi sono seduto, il più possibile, inseguendo (e forse mai raggiungendo) un’auto disciplina e una determinazione che dall’atto dello stare seduti a meditare vedevo a poco a poco germogliare nelle azioni quotidiane. Portando il concetto all’estremo, fare zazen non servirebbe se si riuscisse a essere zen in ogni momento della giornata. Ma la pratica è necessaria, come lo è per suonare uno strumento musicale. Noi siamo lo strumento che suona la nostra musica.

Ho visitato altri dojo (l’esperienza più bella a San Francisco, dove oriente e occidente si tengono per mano non solo nel dojo del San Francisco Zen Center, al 300 di Page street – davanti al quale Chris, il figlio di Robert Pirsig e co-protagonista di ZAMC è stato accoltellato a morte nel 1979). Mi sono unito al silenzio di altre persone, ho meditato, mi sono annullato, ho stimolato la mia mente, l’ho svuotata. Ho martoriato le mie gambe e le mie anche forzandole alla posizione seduta davanti a laghi, sotto le chiome degli abeti, con tre maglioni addosso in camerette da studenti mentre fuori nevicava.

E poi? E poi anche il “periodo seduto” è passato. A un certo punto la vita ti porta a dover camminare, a voler camminare e poi correre. Ripensandoci ora, quel mio stare a gambe incrociate non ha avuto niente a che fare con la ricerca di una fede, con l’esigenza di trovare risposte alle grandi domande della vita. Anzi, più notavo che le attività nel dojo si riempivano di cerimoniali e formalismi religiosi più io sentivo di volermene distaccare. Mi sono avvicinato allo zen, forse sbagliando, sempre in modo assolutamente laico, ma voglio credere che quel modo di respirare, quella perfetta armonia di polmoni e cuore, quel battito che riuscivo sentire anni fa, riesca ancora, almeno ogni tanto, ad allinearsi al mio respiro, quello di oggi.

Ora che sto in piedi, ora che mi chiedi di Gesù Bambino, e di Betlemme e di dove si va quando si muore, e di chi c’è lassù in cielo, io cerco di rispondere senza gettarti nel mare di un relativismo annichilente, non ancora. Ti guardo crescere, bambino privato della bella e semplice favola alla quale tutti noi abbiamo creduto da piccoli, e che forse è servita a rassicurarci, ad aiutarci ad avere delle risposte pronte e pre-confezionate per le prime domande da grandi che ci si fa da piccoli. Cosa c’è oltre la fede? C’è la vita, che continua, inesorabile, indifferente al nostro cercare di capirla, di catalogarla, di interpretarla.

E facendo mie e parole di D.T. Suzuki (che di Alan Watts è stato mentore e fondamentale fonte di ispirazione), faremmo bene a vivere la vita come un unico ininterrotto respiro. Vivere nel presente. Ma questo, bambino mio, sei tu che lo insegni a me ogni giorno.

14 thoughts on “Now and Zen”

  1. Me l’ha segnalato Paolo Zardi. Sa che ho un certo debole verso questo genere di viaggi. 🙂 Lo leggerò più tardi perché è dalle sei che sono in wordpress a fare e disfare la prima pagina e comincio a non capire più niente.

  2. Ho attraversato burrasche prima di giungere ad acque tranquille. Le mantengo eliminando il dissidio dalla mente. Per fare questo non ho bisogno di culture dove comunque mi sentirei come una pianta nata in altra terra, io, pianta da orto.

  3. Grazie Marco,
    In questa pagina trovorispecchiata la mia stessa affannosa, a volte stentorea ricerca.
    Ogni tantoa recito mantra, ogni tanto mi perdo nella contemplazione della meraviglia del mondo e delle persone. Lavorare con i bambini aiuata parecchio, lo devo riconoscere: in essi trovi tutta la semplicità e l’armmonia della vita.
    Ma il mio vero spazio di pace, il mio mantra vivente, è raccolto nella corsa e nel nuoto, nella ricerca del gesto che mi dia la sensazione di perdermi nell’acqua, nella fortezza e nella resistenza dei chilometri mangiati dalle gambe.
    Che incredibile meraviglia è la vita, caro Marco.
    so che tu lo sai bene.

    1. Caro Carlo, grazie per essere passato di qui. Mi piace quello che hai scritto. Ho spesso pensato che negli anni abbiamo bevuto troppe poche birre insieme. Ma c’è tempo per rimediare. Un abbraccio. M.

    2. Carlo, in realtà in questo post mi sembra di aver messo insieme troppe cose e allo stesso tempo di averne tralasciate altre fondamentali. Mi fa comunque piacere che tu abbia riconosciuto un sentire comune.

  4. le cose veramente importanti smuovono in noi sentimenti, pensieri, ricordi a volte in apparente contraddizione tra loro. Parlano a più parti di noi stessi, ed ogni parte vuole voce.
    Credo sia questo a renderci difficile raccontarle, le cose veramente importanti.
    Non so se hai presente I bambini quando hanno il prepotente desiderio di condidere un’ esperienza vissuta: sgranano gli occhi, prendono un respiro grande, e iniziano a parlare ad altra voce, ma preso di fermano e ricominciano, magari balbettano. Perché l’emozione che vogliono trasmette li ha pervasi e contrasta con la parola.
    Ecco, poche cose sono importanti quanto la ricerca di sé stessi, tanto che , dicono, potrebbero occorrere diverse esistenze per raggiungere l’obiettivo. Normale perciò essere poco lineari, quasi confusi.
    Ma sono solo mie impressioni, sono ancora indietro nel mio percorso.
    Insomma, sono ancora confusocondividere

  5. nutro profonda ammirazione nei tuoi confronti. Per come hai coltivato la tua curiosità e le tue passioni, per la competenza che ti sei costruito.
    invidio I tuoi viaggi ( viaggiare dovrebbe essere un diritto riconosciuto dalla Costituzione).
    berremo un calice di vino a Roma!

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