C’è stato un tempo, peraltro neanche troppo lontano, nel quale bastava un attimo. Un dettaglio, un piccolo particolare, un’immagine alla quale ne seguiva subito un’altra in un gioco a rincorrersi. Nella mia mente si allineavano fotogrammi, o sequenze di fotogrammi, pescati tra le migliaia di immagini che quotidianamente si imprimono sulla rètina. Il tutto avveniva in modo casuale, ed è così che nascevano le storie: spezzoni di mondi fantastici, atomi liberi che si univano dando concretezza alla fantasia. Le paure, le ossessioni e i desideri assumevano contorni e profondità.
Capitava poi che, tornato alla realtà, riuscissi a trascrivere i viaggi nella fantasia e a trasformarli in racconti. Non sempre lo facevo. Spesso mi bastava sapere di esserci stato, almeno per qualche minuto, in quel luogo che era contemporaneamente fuori e dentro di me. D’altronde, anche quando trovavo il modo e il tempo di fissare quei mondi, provando a scriverli su un foglio, la distanza tra l’impulso sinaptico e la punta di graffite era troppa: la maggior parte dei pensieri e delle immagini si perdeva lungo il tragitto, scivolava lungo il braccio, si accumulava sulla punta del gomito e gocciolava a terra, persa per sempre. Quando invece riuscivo a far arrivare al foglio alcune immagini, incontaminate, allora la soddisfazione di esserci riuscito (di essere riuscito a mantenere intatti i pensieri così da poterli rileggere e riconoscerli come l’esatta copia di ciò che si era formato nella mia mente) compensava la frustrazione di essermene lasciati scappare molti altri.
Per mesi mi portavo appresso personaggi che erano la somma di gambe, di camminate, di pettinature e tic nervosi, di occhiali, cravatte, caviglie, gonne e rotondità di corpi che avevo incontrato per strada. Immagini reali si univano ad altre che erano il frutto di piccole esplosioni mentali. Prima di adagiarle su un foglio le tenevo nella tasca interna della giacca, vicino al cuore, insieme alle cose più preziose. Quei personaggi, quelle storie, erano il mio tesoro perché mi fornivano un cosmo, uno spazio delimitato tra l’incipit e la conclusione. Un mondo gestibile perché circoscritto, ordinato da regole nette. Non come il caos della realtà.
Poi ho smesso di scrivere racconti, semplicemente perché non mi interessava più.
Non è vero.
Ho smesso di scrivere racconti perché non avevo tempo.
Falso.
Ho smesso di scrivere racconti perché ho dovuto soccombere alla realtà.
Ok, così va meglio.
Lo scorso febbraio ero a bordo del volo ET 703 diretto a Addis Abeba. La fase di decollo era terminata e le hostess camminavano lungo il corridoio per servire il light snack: noccioline accompagnate da un bicchiere di vino bianco. Avevo iniziato a mettermi comodo: il sedile reclinato di qualche grado, la cintura di sicurezza allacciata ma allentata, il tavolino abbassato, la coperta a coprirmi il ventre e, appoggiata sulle mie gambe, Lolita. Pochi giorni prima avevo iniziato a leggere il romanzo di Nabokov. L’avevo comprato in e-book, poi, arrivato a pagina 50, ho deciso di comprare il libro – nell’edizione Adelphi con la copertina color trota salmonata – e di ricominciare a leggerlo da capo. Nella mano destra tenevo una matita, pronto a prendere nota dei pensieri che mi sarebbero venuti leggendo (già le prime pagine avevano generato una massa consistente di pensieri, sebbene piuttosto ingarbugliati). Ricordo di aver pensato che Lolita mi aveva ricordato un altro libro. O meglio, ricordo che alcuni dei pensieri che ho avuto leggendo Lolita mi avevano riportato alla mente pensieri simili nati durante la lettura de l’Avversario di Carrére. In quest’ultimo, la follia è dissezionata e analizzata al microscopio; in Lolita è l’ossessione a ricevere lo stesso trattamento. Nabokov ci accompagna dentro il suo tormento in modo sublime, ci porta al limite e ci ipnotizza con la sua impareggiabile maestria. È come un solletico che si arresta prima di trasformarsi in brivido. È come, avevo pensato, passarsi lo stelo di una rosa sul braccio: il profumo e il colore perfetto del fiore, unito al solletico della spina che scorre sulla pelle, creano una sensazione dalla quale si rimane rapiti. Solo un po’ di pressione in più e una goccia color rosa rossa andrebbe a rigare il braccio.
Un uomo corpulento, vestito da pilota, con un copri-occhi giallo, addormentato e girato sul fianco destro due file davanti a me, aveva appena rotto il silenzio con frasi sconnesse che erano uscite dalla sua bocca russa portando i suoi sogni nella cabina. Deve aver detto qualcosa di divertente, a giudicare dal ghigno prolungato di un altro uomo con folti baffi che mi ha subito ricordato qualcuno, forse un attore francese. Avrei potuto chiederlo alla hostess perché avevo notato che subito dopo il latrato del corpulento russo e il ghigno dell’uomo baffuto, quest’ultimo, sempre ridendo, si era intrattenuto con lei: piacevole donna etiope con l’unica pecca di un eccessivo trucco azzurro sulle palpebre. Eccola che mi riempie il bicchiere (per la terza o la quarta volta) versando il vino bianco spagnolo che avevo scelto dal menù (invece di un imprecisato chardonnay francese) quando avevo declinato la cena chiedendo soltanto vino e snacks. Gli snacks erano di quelli classici da cocktail, a forma di pesciolino. Finita la prima bustina, l’hostess si era avvicinata con una ciotolina piena di una granaglia scura chiedendomi se avessi voluto assaggiare. Mi disse che erano lo snack tipico etiope e che si chiama kolo. Accettai, ringraziai e iniziai a ingurgitare quelli che si rivelarono essere chicchi di orzo, tostati, amarognoli, e ottimo accompagnamento per il mio vino spagnolo. Ogni volta che la hostess passava di fianco al mio sedile si lasciava dietro un profumo di mandorla che si sposava egregiamente col vino, con i semini di kolo, col giallo del foglio sul quale stavo scrivendo e con Humbert Humbert che, intorno a pagina cento ha sposato Charlotte Haze, una donna la cui autobiografia era priva di interesse quanto lo sarebbe stata la sua autopsia, avvicinandosi così al suo intento di sedurre la piccola Lo-li-tah.
In quale altro modo, ricordo di essermi chiesto, accetteremmo di appassionarci alla descrizione in prima persona di un uomo che prova un’attrazione morbosa per una ninfetta dodicenne? In quale altro modo, passando a Carrére, potremmo arrivare a provare un sentimento di empatia per un uomo che ha basato la sua vita sull’inganno, giungendo a un tale livello di staccamento dalla realtà da arrivare a uccidere la propria moglie, i propri figli e genitori? La finitezza del racconto ce lo permette, il sospiro imbarazzato e solitario ci coglie davanti alla parola fine stampato in ultima pagina.
Ho smesso di scrivere racconti e dopo cena rimango seduto al tavolo in cucina. Mia moglie, in salotto, si allunga sul divano a chiacchierare al telefono con qualche amica. I bambini sono già immersi nei loro mondi fantastici: il più grande impegnato in una gara di macchinine su un circuito che dall’ingresso arriva fino in cameretta, la più piccola assorta in un fitto dialogo con una manciata di pupazzetti ai quali sta servendo la cena. Dalla mia posizione vedo un riquadro di parete incorniciato dal frigorifero a destra, dalla mensola coi i vasi del sale grosso, sale fino e zucchero, in alto, e dalla porta sul terrazzino interno con la lettiera della gatta e la rastrelliera delle scope, a sinistra. La parete è ricoperta da piastrelle bianche con un motivo floreale blu scuro. Mi piace indugiare per qualche minuto dopo che gli altri si sono già alzati da tavola. Rimango a fissare il motivo delle piastrelle e a giocare con la messa a fuoco del mio sguardo, spostando l’attenzione dal bianco al blu, dal vuoto al pieno. Si ottiene un effetto come se il motivo fosse in rilievo. Spostando impercettibilmente il collo, il motivo ondeggia, e in quei dieci centimetri quadrati di spazio vedo le mura di un castello. Le vedo ondeggiare e poi crescere in altezza verso il centro dove un punto nero mi appare prima come un pozzo, poi come una torre, e poi ancora, riportando il collo dritto, come una voragine profonda dentro la quale precipitano decine di cavalli che dai bordi si avvicinano al centro della piastrella galoppando forsennati. Rimango rapito da questa allucinazione, la testa che ondeggia, gli occhi pieni di colore e le orecchie frastornate dal rumore della mandria impazzita. Poi un citofono, un urlo o uno schianto di macchinine mi riportano nella realtà, mi riportano ai miei cari, ai compiti, alla poesia da imparare a memoria e alle addizioni da completare sul quaderno di matematica, e poi fino al bagnetto che con il suo alone di vapore caldo ci conduce al silenzio della notte.
Ho smesso di scrivere racconti perché la realtà s’era presa tutto lo spazio. La realtà ha la capacità di tarpare le ali alla fantasia, alla magia e all’imprevisto. Taglia le frequenze estreme. La realtà è concreta, non si perde in svolazzi estetici, ci tiene ancorati alla linea mediana e noi ubbidiamo, per non soccombere, per evitarci lo sforzo di risalire, dopo che a un picco era seguito un tonfo. Meglio non allontanarsi, non perdere l’equilibrio, in quel modo nessuna caduta sarebbe lunga abbastanza da procurare dolore.
Ho smesso di scrivere racconti e ora porto i miei figli a scuola, in macchina, tutti i giorni. Durante il tragitto sintonizzo la radio sulla stazione della musica classica o sul canale jazz (perché gli fa bene sentire quella musica). Poi, consegnati i figli alle maestre, risalgo in macchina e accendo la radio. Non sopporto più il silenzio e ancor meno il suono isterico delle mani avvinghiate al volante nei veicoli davanti, dietro e di fianco a me. Il primo canale dei preferiti è Roma Radio Sport. Adoro ascoltarli, adoro la loro monotona ricerca del sogno e del settimanale ritorno alla realtà. Ce la farà la A.S. Roma a imporsi quest’anno? (Il sogno). Perché ancora una volta il Sassuolo, dico, il Sassuolo, è riuscito a imporre il pareggio all’Olimpico? (La realtà).
Ora, in piedi di fronte al camino, indosso la mia giacca con le tasche vuote e posso dire che non c’è stato un giorno preciso nel quale ho smesso di scrivere racconti. È stato un processo graduale, qualcosa di simile a un’erosione, impercettibile ma inesorabile. Un terreno che si è fatto arido ogni giorno di più. Strati di cellule morte hanno anestetizzato i sensi, hanno offuscato la vista e la capacità di lasciarmi sorprendere, di cogliere quegli attimi che erano stati la mia linfa vitale. Ora aspetterò che la fiamma nel camino diventi brace e penso a queste mie parole come a un preludio, perché di scrivere racconti non si smette mai veramente, a patto che non si smetta mai di coltivare la fantasia nell’orto della realtà.
2 thoughts on “Il giorno in cui ho smesso di scrivere racconti”
Be’, questo è un racconto, no? 😉
Capisco cosa intendi, quando dici che la realtà erode la fantasia – tengo pure io famiglia, e la descrizione di ciò che succede a casa tua la sera ha qualcosa di universale. Eppure io penso che è proprio la realtà, con il suo tagliare le frequenze, a spingerci tra le braccia della fiction – a rendere la scrittura un’esigenza inderogabile. Tenco, a chi gli chiedeva perché scriveva canzoni tristi, aveva risposto “perché quando sono allegro esco”. Non so se c’entra molto, ma io credo che la realtà, la vita quotidiana, la sua routine (che non lo è mai fino in fondo) vadano vissutaefino in fondo, lasciando però uno spazio mentale solo per sé… Anch’io vorrei potermi lasciare andare al mio fantasticare ogni volta che lo voglio; ma quello che ho constato è che è solo quando il tempo è poco, e la pressione delle cose pratiche sufficientemente forte, che nasce l’esigenza di scrivere. Se non ci sono impedimenti, se la mia mente è libera di svolazzare, esco. 😉
Caro Paolo,
be’, sì, questo pezzo è nato come racconto. Poi forse mi è scappato di mano, è diventato troppo personale. È diventata un’improvvisazione jazz. Ha voluto esser preludio, come in effetti è stato, e mi ha riavvicinato alla carta e alla matita. E quindi è finito qui sul blog. Come ho provato a esprimere nell’ultima frase, per quanto indebolita dal suo alone di poesia spiccia e mediocre, la realtà può essere orto, e in quanto tale va coltivata.
Un abbraccio.