Ripensandoci, dopo aver letto “Ecco la chiave”, racconto inserito nella raccolta “Il barile Magico” di Bernard Malamud, il mio arrivo a Roma è stato una passeggiata. Certo c’è stato un breve periodo di permanenza in ostello e poi, una volta trovato l’appartamento giusto (un piccolo due locali al quinto e ultimo piano di un palazzo del 1951 in piena zona universitaria), l’inquilino che stava lasciando l’appartamento mi ha coinvolto nel suo escamotage per poter rescindere il contratto anticipatamente senza perdere il deposito. Con l’inquilino ho anche barattato la riparazione del vetro di una finestra, che lui aveva rotto una volta che si era chiuso fuori (e che poi aveva evitato di aggiustare, nel caso si fosse chiuso fuori ancora) con un tavolo, quattro seggiole da esterno e un ombrellone: ottimo arredamento per la terrazza dalla quale si poteva godere di uno scenario mozzafiato, la distesa infinita di tetti fino al profilo scuro dei colli romani.
E comunque, in confronto a ciò che ha dovuto sopportare Carl Schneider, il protagonista di “Ecco la chiave”, a me è andata di lusso. Perlomeno non ho dovuto confrontarmi con Vasco Bevilacqua, l’agente immobiliare (senza un vero ufficio e senza automobile) che Malamud descrive così:
I suoi capelli puntavano in tutte le direzioni. Gli occhi erano miti; non tristi, ma lo erano stati. Indossava una camicia bianca, pulita, uno straccio di cravatta e una giacca nera che gli si era un tantino arrampicata su per la schiena. I pantaloni erano di cotone ritorto, e le scarpe traforate, a punta e ben lucidate, erano estive.
Nel mio caso l’interlocutore, il middle-man fra inquilino e padrone di casa, era un elegante pensionato con i capelli bianchi tirati indietro, rigorosamente in completo beige e cravatta. Affabile, pure troppo, al punto che mi chiedevo il perché, e se ci fosse sotto qualcosa. Per i quattro anni che ho abitato in quell’appartamento tutto è filato liscio. Più di una volta l’elegante pensionato mi ha chiesto se fossi ebreo e sembrava deluso quando io gli rispondevo: “non che io sappia”. “Sa (mi dava sempre del lei) è per via del suo cognome”. Più avanti scoprii che ad essere ebrei erano sia il middle-man che l’effettivo padrone di casa, ebreo e residente in Israele. A posteriori mi sono chiesto se magari avrei potuto godere di qualche beneficio se mi fossi dichiarato ebreo. D’ altra parte Malamud stesso, in un intervista, ha detto: “All men are Jews, though few men know it“.
Ma torniamo a Carl Schneider, è di lui che si stava parlando. In breve, la vicenda del racconto è questa:
Carl Schneider è un dottorando in letteratura italiana alla Columbia University. Per completare la sua ricerca decide di trasferirsi a Roma con moglie e due figli. Quando gli viene negata una borsa di studio decide di imbarcarsi comunque con soldi prestati dalla madre di lei . Dopo numerosi tentativi per trovare un alloggio che risponda alle loro esigenze e al loro budget, finalmente trova un appartamento che sembra perfetto. Ma c’è un inghippo. L’ appartamento è di proprietà di una contessa ed era occupato dal suo amante fino a quando lei ha deciso di sposarsi (con un altro) e cacciare l’amante il quale, però, rimane in possesso dell’unica chiave per accedere all’appartamento. Carl si trova quindi invischiato in questo garbuglio e se da una parte deve difendersi dall’amante, che gli chiede soldi in cambio della chiave, dall’altra cerca di usare ogni mezzo per poter occupare l’appartamento. Come in ogni finale che si rispetti, la vicenda si conclude in modo inaspettato, e non solo perché Carl viene colpito in fronte dalla chiave scagliata dall’amante in un ultimo gesto di stizza.
Questo racconto, tra i tredici raccolti ne “Il Barile magico” è quello che più mi ha fatto non solo sorridere ma anche ridere. Ora, quando le vicende della vita mi maltrattano un po’, posso consolarmi immaginando di essere io stesso un personaggio di Malamud, oggetto della tipica ironia ebraica. Di questo, sono certo, ne sarebbe contento il mio elegante middle-man.