Anatomia dell’irrequietezza – Bruce Chatwin


Dopo qualche anno rileggo Anatomia dell’irrequietezza di Bruce Chatwin. Ricordo di aver comprato il libro proprio per quella parola stampata in copertina: irrequietezza. Parola che ho sempre letto in modo positivo, come una qualità da avere, come un modo di stare al mondo. Come uno stato profondo dell’anima che si esprime in curiosità mentale e che porta a una continua esplorazione in senso fisico, di movimento.

Di tanto in tanto mi trovo a pescare nel mare di quaderni, ritagli e fogli sparsi che tengo in uno scatolone sotto la mia scrivania. Questa volta estraggo un quadernetto marrone sgualcito. Sfoglio e leggo: “È perché io mi annoio facilmente. Voglio sempre cambiare scenario e sento il bisogno di andare a mettermi in posti nuovi, in situazioni nuove, di provare, di sperimentare, e magari anche di cacciarmi nei guai fosse soltanto per il gusto di vedere se riesco a uscirne. Se sto troppo a lungo nello stesso posto dopo un po’ le cose smettono di succedere. Cado nella routine. Mentre invece io voglio vivere sempre con le orecchie dritte, le antenne ben alzate per captare ogni segnale. Solo così mi sento all’erta. Solo così mi sento vivo.” Questo è come, anni fa, esprimevo la mia sensazione di irrequitezza. Ora sorrido pensando che le stesse parole avrei potuto scriverle anche ieri, e sicuramente le potrei sottoscrivere domani.

Nell’introduzione al libro, i due curatori (Jan Borm e Matthew Graves) scrivono che i testi di Chatwin raccolti nell’Anatomia dell’irequietezza, abbracciano ogni periodo e aspetto della carriera dello scrittore e rispecchiano i temi costanti del suo lavoro: radici e sradicamento, esilio ed esotico, possesso e rinuncia. Tutti temi che anche a me sono particolarmente cari.

Anatomia dell’irrequietezza si sviluppa seguendo un criterio tematico ed è diviso in cinque sezioni. Nella prima, autobiografica, intitolata “Horreur du domicile”, Chatwin esprime la sua passione per i luoghi remoti. La seconda parte contiene quattro racconti, esotici, in bilico fra realtà e fantasia. Prima della quarta e quinta sezione, intitolate rispettivamente “Recensioni” e “L’arte e l’iconoclasta”, la terza sezione, “L’alternativa nomade”, offre a mio parere gli spunti più interessanti e torna a un tema chiave dell’opera di Chatwin mediante un compendio del suo primo, “impubblicabile”, libro sui nomadi, in cui l’autore espone la sua peculiare visione della Storia come una continua dialettica culturale tra civiltà e “alternative” naturali: nomadismo e insediamento, città e selvaggia solitudine, società e tribù.

Dal capitolo “Questo nomade nomade mondo”:

“Neurologi americani hanno fatto l’encefalografia a non pochi viaggiatori. È risultato che cambiare ambiente e avvertire il passaggio delle stagioni nel corso dell’anno stimola i ritmi cerebrali e contribuisce a un senso di benessere, di iniziativa e di motivazione vitale. Monotonia di situazioni e tediosa regolarità di impegni tessono una trama che produce fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sé e reazioni violente. Nessuna meraviglia, dunque, se una generazione protetta dal freddo grazie al riscldamento centrale e dal caldo grazie all’aria condizionata, trasportata su veicoli asettici da un’identica casa o albergo a un altro, sente il bisogno di viaggi mentali o fisici, di pillole stimolanti o sedative, o dei viaggi catartici del sesso, della musica e della danza. Passiamo troppo tempo in stanze chiuse”.

“Io preferisco lo scetticismo cosmopolita di Montaigne. Per lui il viaggio era «un utile esercizio; la mente è stimolata di continuo dall’osservazione di cose nuove e sconosciute … Nessuna proposizione mi stupisce, nessuna credenza mi offende, per quanto contraria alle mie … I selvaggi che arrostiscono e mangiano i corpi dei loro morti mi scandalizzano meno di coloro che perseguitano i vivi». L’abitudine, egli dice, e la fissità degli atteggiamenti mentali ottundono i sensi e nascondono la vera natura delle cose. L’uomo è naturalmente curioso”.

Nella prima sezione Chatwin riporta un evento autobiografico: “Non molto tempo fa, dopo anni di vagabondaggio, decisi che era ora, non di mettere radici, ma almeno di farmi una casa. Pensai i pro e i contro di una casuccia imbiancata a calce su un’isola greca, di un cottage in campagna, di una garconniere sulla Rive Gauche, e di varie alternative tradizionali. Alla fine, conclusi, tanto valeva far base a Londra. Casa, dopotutto, è dove sono i tuoi amici. Consultai un’americana, veterana del giornalismo, che per cinquant’anni ha trattato il mondo come il cortile di casa sua. “Londra ti piace davvero?” le chiesi. “No” disse lei, con voce roca sigarettosa” ma Londra è un posto come un altro per appendere il cappello”.

Per quanto mi riguarda, io il cappello lo uso raramente e quindi non mi serve neanche un posto per appenderlo. Intanto mi tengo sempre pronto per partire, non si sa mai.

[A chi, come me, è affascinato da queste tematiche consiglio di leggere anche Beyond Civilization di Daniel Quinn, meglio conosciuto come l’autore di quello straordinario libro intitolato Ishmael].

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