Verrete portati sull’orlo del precipizio e lì aspetterete. Basteranno poche pagine per creare quel senso di vertigine che vi accompagnerà durante la lettura di Apri gli occhi, ultimo romanzo di Matteo Righetto (158 pp. TEA ed. 2016).
Sarà sufficiente l’incipit:
Accadrà e sarà un pomeriggio di giugno. Le temperature scenderanno improvvisamente. Un temporale oscurerà il cielo e la pioggia battente sembrerà voler lavare ogni cosa.
Rimarremo appesi a quel futuro, premonizione o minaccia. Controlleremo i moschettoni e l’imbragatura e a ogni pagina diverremo sempre più consci che qualcosa sta per andare storto.
È un tema forte quello trattato dallo scrittore padovano. Un tema che poteva essere affrontato con uno sfogo irrefrenabile, o con il silenzio. Con il boato di una valanga o con il vento lieve che accarezza i fiori alpini. Righetto sceglie la forma breve e un linguaggio semplice. Un lessico essenziale, senza pesi eccessivi che in montagna non servono. E così facendo ci trascina nella storia senza alcuno sforzo. Ben presto siamo noi a essere pietrificati sul bordo di uno spuntone di roccia.
Da quella prospettiva conosceremo Luigi e Francesca, una coppia che ha smesso di esserlo ancor prima che Giulio, il loro figlio, venisse strappato alla vita. Conosceremo la felicità dei loro primi anni e la solitudine, la fine dell’amore e di una vita che chiedeva solo felicità, ancora una volta, tutti insieme.
Sullo sfondo della tragedia famigliare, la montagna. Severa e lieve. Descritta con il rispetto che gli si deve e innalzata a ruolo catartico di liberazione e rinascita. Le parole di Righetto sono sobrie e precise, specchio di come ci si deve comportare in quota. Un linguaggio che gli è valso il premio Mario Rigoni Stern.
La scalata finale verso la croce sullo Schenon, nel gruppo dolomitico del Latemar, ci lascia senza fiato, ci costringe a nascondere le lacrime, almeno fino a quando saremo in vetta, e a quel punto ogni sentimento dovrà soccombere, sovrastato dalla bellezza e dalla forza della Natura.