Buzoku – Autori per il Giappone

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Io ho contribuito donando e inviando il testo (non propriamente un racconto) che ripropongo qui sotto.

Buzoku

La tromba di Miles Davis si sentiva fin sulle scale, Sketches of Spain, Jon era in casa. Su una mensola c’era una fila di raccoglitori con un codice sul bordo. Ne presi uno e iniziai a sfogliarlo. Erano tutte fotografie di Jon: una serie di immagini di persone ritratte mentre stavano lavorando a qualcosa, stavano facendo qualcosa. Si stavano muovendo. Lo si capiva dalla posizione del loro corpo ma soprattuto dagli oggetti che stavano intorno. Le foto trasmettevano una sensazione di movimento e di precisione. Gli autori di quei gesti erano cristallizzati nell’unità singola, nel fotogramma, ma quelle immagini facevamo risaltare il prima e il dopo dell’attimo immortalato. La consecuzione di attimi. Già, ma Jon stava parlando.

“È esattamente quello che penso io, ed è così chiaro, l’azione e il pensiero all’unisono. Scusa, se mentre scopo la stanza penso a Hegel, ci sarà per forza un dualismo fra corpo e mente. Ma se scopo la stanza e penso a scopare la stanza, sono un tutt’uno. E la cosa non è banale. Scopare la stanza quindi diventa la cosa più importante del mondo, ed infatti lo è”.

Presi una bottiglia e riempii i bicchieri, poi alzai il mio per un brindisi. “Certo – continuò Jon – perché in Oregon c’eri anche tu, e queste cose si sapevano già. Sono sempre state in noi. Vedi, io in Oregon ci sono stato per tre stagioni di fila e all’inizio non riuscivo a capire dove fossi. Mesi di fila di lavoro fisico, nel bosco tutti i giorni, fondamentalmente isolati, a più di venti miglia dalla prima strada asfaltata. Non si scendeva mai, settimana dopo settimana nel bosco a lavorare. All’inizio ho cercato di fare esercizio con la mente per tenermi allenato, leggevo. Avevo portato alcuni libri e quando andavo nel bosco, mentre svolgevo il mio lavoro, cercavo di pensare a qualcosa di serio e intellettualmente stimolante. Ed era frustrante. Così alla fine pensai: al diavolo gli intellettuali! E smisi di vivere una vita intellettuale interiore separata dal lavoro. Va bene, mi dissi. Lavorerò soltanto. E invece di perdere qualcosa, ebbi in cambio qualcosa di più grande. Lavorando soltanto mi trovavo ad essere completamente presente, con tutta la montagna dentro, fino ad avere un linguaggio comune con le rocce e gli alberi. E fu lì che mi accorsi per la prima volta della possibilità di essere uno con le proprie azioni”.

Accanto ai raccoglitori di foto c’era un quaderno ricoperto di carta da pacco marrone. Aveva la copertina rigida ed era quadrato. Sulla copertina era scritta la parola buzoku e sotto dei caratteri in calligrafia giapponese. Iniziai a sfogliarlo. Le pagine, anch’esse marroni, erano di carta sottile. C’erano alcune foto ma sopratutto era scritto, a mano, con caratteri neri e spessi. C’erano poi ritagli di giornale incollati sulle pagine e pezzi di fogli scritti a macchina. Mi misi a leggere e subito Jon disse “Buzoku, sai cosa significa?” Io non risposi e lui iniziò a parlare.

Jon arrivò nel porto di Kobe dopo due settimane a bordo di un mercantile.  Spaesato, con i suoi quattro bagagli, iniziò a girovagare per il porto e dopo qualche giorno si unì ad un gruppo di monaci che gestivano un ostello per viandanti presso il loro monastero. Fu lì che, parlando con gli altri ospiti che di settimana in settimana arrivavano e partivano, udì per la prima volta la storia di Sakaki-san.  Nanao Sakaki era stato pilota dell’aeronautica giapponese durante la seconda guerra mondiale. Finita la guerra, sconvolto dalle atrocità a cui aveva assistito, non tornò più a casa.  Dapprima andò a vivere sotto i ponti di Tokyo insieme a mendicanti e prostitute, poi si mise a camminare. Percorse il Giappone da nord a sud, più volte, sempre camminando e mendicando. Durante il suo cammino era solito fermarsi presso biblioteche pubbliche, oppure era ospitato a casa di insegnanti e in questo modo si fece un’istruzione.  Imparò l’inglese, il greco e il sanscrito. Lesse libri di antropologia, biologia, astronomia e storia, sempre percorrendo il Giappone in lungo e in largo.  Dopo alcuni anni tornò a vivere sotto i ponti di Tokyo e lì venne in contatto con alcuni giovani: perlopiù ex-studenti che avevano abbandonato gli studi per cercare altro. Lo andavano a trovare e gli portavano materiale di scarto col quale Nanao costruiva sculture di assi vecchie e ferraglia. I giovani gli chiedevano cosa avrebbero dovuto fare, cosa avrebbero potuto fare, e lui li mandava in viaggio. Gli diceva: andate su fino in Hokkaido e non portate con voi più di cento yen, e quando tornate, allora parlerò con voi. Nanao gli faceva fare queste prove di sopravvivenza mandandoli in giro a esercitare la condizione di non avere niente e di non aver bisogno di niente. Consigliava loro di leggere Erodoto e il vecchio storico cinese Ssu-ma Chien. Dopo qualche tempo venne a sapere di un’isola al largo di Kyushu che era sotto-popolata perché troppo isolata e con un terreno che non era in grado di produrre cibo. Con altre sette o otto persone andò sull’isola e per la prima estate non fecero altro che disboscare, tagliare bambù ed estirpare radici per piantare patata dolce. In seguito riuscirono a crearsi più terreno coltivabile e costruirono una casa con i tronchi tagliati a monte e trascinati fino al mare. A questa comunità se ne aggiunsero poi altre due: una a nord, nell’Hokkaido, e una in città, a Tokyo. Le tre comunità erano collegate fra di loro e i membri, che costituivano un gruppo non chiaramente circoscrivibile, si muovevano da una casa all’altra svolgendo sempre attività che portassero beneficio alla comunità intera. Un ciclo montagna-campagna-città. Nelle tre case alloggiavano al massimo cinquanta persone ma altri trecento erano in viaggio, in circolo da un posto all’altro. Talvolta svolgevano qualche lavoretto occasionale, al porto o lungo le ferrovie. Invisibili, entravano e uscivano dalla società. Condividevano i loro prodotti, qualsiasi cosa, e poteva capitare che se avevi prestato un maglione a qualcuno, dopo qualche mese lo vedevi indosso ad altre persone in posti diversi, perché se lo passavano secondo il bisogno del momento.  Nella comunità a nord, fra la neve, i castagni, ed i raccolti invernali, la vita procedeva con l’eco della tradizione Ainu e della cultura preistorica dei Gilyak siberiani. Loro volevano abbracciare le possibilità della cultura giapponese più remota, e per questo motivo si chiamavano tribù: buzoku, appunto.

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