Carissimo Simenon Mon cher Fellini

Nel 1960, dopo avere più volte rifiutato, George Simenon accetta di presiedere la giuria della XIII edizione del Festival di Cannes.  In quell’anno a contendersi la Palma d’Oro ci sono registi del calibro di Bergman, Buñuel, Antonioni e Fellini. Nonostante le pressioni, discrete ma insistenti, del direttore del festival, che a sua volta era sottoposto alle richieste del ministero degli esteri, Simenon non accettò alcun tipo di compromesso, ed esprimendo il volere della giuria (della quale faceva parte anche Henry Miller) la Palma d’Oro venne assegnata a Fellini per il suo film La dolce vita. (L’avventura di Antonioni ricevette il premio speciale della giuria). Così ricorda Simenon “… quando ho letto l’elenco dei vincitori sono stato abbondantemente fischiato; solo alcuni applaudivano, quasi vergognandosi di rappresentare un’eccezione”. Come ora sappiamo, il tempo ha poi dato ragione allo scrittore belga.

Passano alcuni anni e nel 1969, in un intervista dell’Express a Fellini troviamo questo passaggio:

Express: Lei non fa che parlare di creazione, di creatori. In che cosa consiste per lei la creazione artistica?

Fellini: Simenon ne è l’esempio più luminoso. E’ un medium abitato da visioni. Un creatore è sempre un medium che capta la dimensione fantastica e la rende concreta. Attraverso parole, colori, immagini. Un giornalista ha chiesto a Simenon come scriveva i suoi libri. “A volte” ha risposto “lo spunto iniziale è un odore mai sentito prima” Da un odore di fritto nasce una certa cucina in una cittadina di provincia. Poi in questa cucina entra della gente. Per un artista sensuale (non sessuale), tutto inizia da un contatto fisico con la realtà. “Ebbene, per me è la stessa cosa…”

La stima con Simenon è reciproca e l’assegnazione della Palma d’Oro a Fellini è stato solo il primo gesto di un ammirazione che lo scrittore esprimerà più volte nel corso degli anni.

Da qui nasce il dialogo: trent’anni di corrispondenza fra i due artisti come espressione di un’amicizia forte e al tempo stessa discreta, intessuta di lunghi silenzi e improvvise accensioni, di reticenti pudori e impudiche confidenze. Un’intesa segreta, una complicità impalpabile e sotterranea.

Trent’anni di lettere raccolti in Carissimo Simenon Mon cher Fellini (Adelphi, 1998), pubblicazione che contiene anche una prefazione del curatore Claude Gauteur e la trascrizione di una lunga conversazione che i due ebbero in occasione dell’uscita del Casanova e che apparve sull’Express nel febbraio del 1977.

In questo straordinario carteggio fra due mostri sacri emergono una miriade di considerazioni, pensieri e frustrazioni del loro essere uomini ancor prima che artisti. Per esempio come quando Fellini cerca di descrivere le sensazioni che prova una volta terminato un film: “… in realtà la soddisfazione per la fine di un film in me non dura mai a lungo. Appena lo inizio vorrei che fosse già finito. E’ una cosa troppo impegnativa, troppo angosciante. Ma quando l’ho finito non riesco a concedermi un po’ di riposo. Devo cominciare qualcosa di nuovo, il vuoto mi dà un senso di completa inutilità…”

Il vuoto, appunto, quella fase di mezzo fra due lavori che Fellini esprime con una metafora: “… mi trovo nella situazione di chi, avendo deciso di cambiare casa, lascia il vecchio appartamento, porta via tutti i mobili ma poi, quando è giù al portone con tutta la sua roba, si pente: nella casa vecchia non vuol tornare, in quella nuova teme di non starci bene e così passa il tempo senza più saper che fare, con tutti i mobili in mezzo alla strada”.

E allora l’artista si butta nel lavoro, la sua unica salvezza. Ancora Fellini: “Quando uno lavora, si sente d’improvviso sollevato da tutte le responsabilità della vita collettiva. Tutti lo rispettano. Non è più obbligato a dare amicizia, a dare amore, a dare soldi allo Stato, e nemmeno a farsi tagliare i capelli o comprare un paio di scarpe… Che alibi, il lavoro! Ma non appena il lavoro finisce tutto ci piomba di nuovo addosso, e allora credo che ci venga subito voglia di ritrovare questa condizione di irresponsabilità sociale per far fronte all’unica vera responsabilità di chi crea, quella che abbiamo nei confronti dei nostri fantasmi.”

Fantasmi, aggiungerei io, che non appartengono solo agli artisti ma che ci accompagnano quotidianamente nel nostro percorso di esseri umani.

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