Davanti al fuoco

campfire

Noi non pisciamo sul fuoco per spegnerlo.
Noi restiamo a guardarlo fino a quando la fiamma diventa brace.
Noi siamo JerBear e io, e ci piace il silenzio che unisce.

Da settimane siamo accampati nei boschi dell’Oregon. Il nostro lavoro è misurare e contare gli alberi. Insieme a noi una manciata di uomini, e anche loro passano le giornate in giro per boschi, da soli, senza aprire bocca, fino a che la gola diventa secca e si comincia a parlare con gli animali, con gli alberi e con i sassi. Si fanno domande e si aspettano le risposte, e intanto la gola diventa secca. La sera, dopo il lavoro, seduti davanti al fuoco al campo base, ci si sfoga parlando senza sosta, cantando, urlando e tenendo la gola ben umida a forza di birra in lattina. Quando il vociare molesto si spegne e qualcuno si addormenta con la lattina in mano, io e JerBear guardiamo i nostri compagni compiere le ultime operazioni della giornata: pisciare dietro a un albero ed emettere un rutto (il più fragoroso possibile). Poi restiamo a occuparci del fuoco. Lo osserviamo mentre si spegne con la sua lentezza ipnotica. I tizzoni infuocati perdono calore, colore, e diventano bianco cenere.

JerBear e io tagliamo il silenzio con piccole frasi. Parole alternate ai rumori degli alberi e degli animali che si muovono alla ricerca di un cespuglio dietro il quale dormire. A volte non parliamo neanche, facciamo disegni per terra e poi li cancelliamo con i piedi.  Quando gli chiesi di parlarmi della sua famiglia lui iniziò a disegnare il suo albero genealogico tracciando segni sulla terra, usando pigne e sassolini per indicare i vari componenti. La struttura era così ricca di rami monchi e biforcazioni che non capii mai bene il tutto. Al contrario, per disegnare il mio albero avevo bisogno soltanto di poche pigne e di qualche sassolino.

Si partiva sempre da sua madre. Dei suoi nonni non ha mai saputo niente, a parte il fatto che uno di loro suonava il piano. E questo lo sapeva perché per un po’ era rimasta appesa in cucina la foto di un uomo seduto a un pianoforte, senza per altro appoggiare le mani sui tasti. Quello è il nonno, diceva sua madre. Del resto non sapeva niente. E comunque si partiva sempre da sua madre, la donna che ha avuto tre figli da tre uomini diversi. JerBear mostrava i denti mentre un ghigno gli scolpiva il volto. Poi continuava e si faceva serio perché sua madre – aggiungeva lui – era l’unica persona che c’è sempre stata. Almeno fino al giorno in cui ha smesso di esserci.

Il primo era un uomo di fede e di promesse. La mise incinta e mentre battezzava il figlio le diceva di fidarsi. Poi cambiò idea e trovò la sua redenzione tornando dalla propria moglie e riprendendo coi suoi sermoni in una parrocchia del Nevada. Il secondo figlio la madre di JerBear lo fece con un uomo goffo e senza capelli, un eterno bambino. Immaturo, diceva lei, incapace di gestire la paternità. Fuggì inseguito dagli incubi dell’alcolismo e dalla polizia. Il padre di JerBear, e terzo uomo di sua madre, era un avvocato, brutto, consapevole di esserlo, e con una attenzione particolare per la galanteria e il fare soldi. Si sposarono, e appena aprì gli occhi, JerBear si trovò in una bella casa, con una madre, un padre e due fratelli.

Da piccoli, i tre si divertivano a confondere gli amici e a raccontare le storie di quei padri diversi. Più di una volta cercarono di mettersi in contatto con i due padri fuggiaschi. Di certo non per spirito filiale. Riuscirono anche a contattarli per telefono: li chiamavano in piena notte e facevano versi, si prendevano gioco di loro, li spaventavano con improbabili minacce senza farsi riconoscere. Ma non li incontrarono mai. Se fosse capitato gli avrebbero spaccato la faccia e così gli scherzi al telefono erano sufficienti per scaricare l’odio nei loro confronti. Infondo il nuovo padre li trattava bene, avevano una casa e vivevano nell’agio. Poi l’avvocato bruttino si montò la testa. JerBear era alle soglie dell’adolescenza quando suo padre si innamorò di una sua segretaria che passava le ore a truccarsi e a ingoiare pasticche. Non ci volle molto: decise di lasciare moglie e figli e andò a vivere con la sua nuova donna. Non riuscì a resistere alla tentazione, al fatto che lui, bruttino ma ricco, era riuscito a conquistare una donna giovane e bella, seppur lunatica e palesemente drogata.

Intanto JerBear cresceva e quando riusciva a non rimanere intrappolato nella ragnatela di plastica e luci al neon della metropoli, andava a cercare il silenzio nel deserto. Da bambino ci andava per cercare sassi scolpiti e punte di frecce. Da più grande invece andava nel deserto per cercare il silenzio. Camminava fino a che non udiva più il rumore della città, fino al punto in cui il profumo del deserto era più forte del puzzo dell’asfalto fuso al sole. E allora si sedeva sui costoni di roccia che sovrastano la città e guardava la distesa di luci, e cercava di dimenticare il labirinto di strade tutte uguali, isolati tutti uguali, asfalto e semafori, distributori di benzina e minimarket aperti tutta la notte. In quei momenti non avrebbe voluto più scendere ma ogni volta c’era qualcosa che lo faceva tornare in città: gli amici, il lavoro, la fidanzata. Finché, una settimana prima di compiere vent’anni, la ragione per scendere è stata di andare a veder nascere suo figlio.

A questo punto JerBear si ferma, con una mano cancella le linee tracciate per terra e scosta pigne e ciuffi di pino. Eccole le mie radici. Sono nel futuro. Io sono come una di quelle piante con le radici aeree, devo cercare il nutrimento nell’aria e nell’acqua. Non come te. Guarda quell’abete, guarda com’è solido, dritto, con la corteccia spessa. E guarda intorno, stanno già  crescendo nuove piantine alla base, dalle stesse radici. Tu sei come quell’abete.

Quando finiva di riordinare i suoi rametti, pigne e ciuffi di pino del suo albero genealogico, io rimanevo a giocherellare con la mia manciata di pigne. Pensavo a come tutto era stato così semplice, lineare, quasi banale. Lo stesso albero, le stesse radici. Proprio come l’abete di fronte a noi.

American Country

fotografie dall’America più remota.

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