La culla del mio fratellino e le altre cose da piccoli ci hanno portati da Mineola a Birthrock. Le collane e le altre cose per farsi bella di mia madre ci hanno portati da Birthrock a Stringtown, dove quella bambina ha preso le bambole di mia sorella insieme a tutta la roba che usava per giocare alla famiglia. A mia sorella hanno detto che la casa delle bambole e la famiglia che ci viveva dentro non le servivano più visto che non vivevamo più a casa. Così la casa delle bambole di mia sorella e tutto quello che ci stava dentro ci hanno portati da Stringtown a Albion, dove quell’uomo si è preso l’orologio da tasca e il temperino di mio padre insieme a quelle altre cose che mio padre si portava quasi sempre dietro se andava da qualche parte.
Le cose che mio padre teneva in tasca ci hanno fatto andare via da Albion, uscire dall’Oklahoma e cominciare a attraversare l’Arkansas per arrivare a Hot Springs. E là quell’ altro bambino ha preso la mia mazza e il mio guantone da baseball e delle altre cose che mia hanno detto erano diventate piccole. Quest’altro bambino ha preso tutti i miei vestiti tranne il completino usato che mi hanno fatto mettere e che mi andrà bene tra un bel po’. La roba da baseball la potevo passare al mio fratellino insieme ai vestiti ma tanto lui ormai non poteva più crescerci dentro.
Questo l’incipit di E allora siamo andati via di Michael Kimball (Ed. Adelphi 2001). Senza correre il rischio di rovinare la lettura a chi vorrà prendere in mano questo libro aggiungo che lui ormai non poteva più crescerci dentro perché lui, il fratellino, era già morto. Ed è proprio la consapevolezza di quella piccola bara caricata nel bagagliaio della macchina che ti torce le budella pagina dopo pagina.
Nel risvolto di copertina si legge: c’è una famiglia che si sposta dal Texas al Michigan, portando con sé la bara dell’ultimo nato e cercando di barattare, lungo il cammino, gli oggetti di cui la macchina è stipata. Ci sono gli esterni che sceglierebbe David Lynch dovendo rigirare, oggi, “Furore”: statali polverose, villaggi fantasma, fattorie con le porte che sbattono, sinistre, nel vento. E ci sono due bambini, che con pochissime parole raccontano, alternandosi, una storia in apparenza elementare. Ma subito le strofe di questa filastrocca metallica e stridente si trasportano in un paesaggio allucinato, che non sappiamo più se sia l’America profonda, la Terra dei Morti, o un qualche terrificante stadio intermedio fra i due.
Questo libro è tutto qui, nella tragica innocenza delle parole di due fratellini. La forza è nel registro stilistico usato da Kimball che facendo parlare i bambini mantiene la narrazione asciutta e senza divagazioni. Il libro si svolge a capitoli alterni, uno con la voce del fratellino e uno con quella della sorellina e non si può non commuoversi per l’ ingenuità con la quale i due descrivono la loro situazione. La voce della bambina, in particolare, si muove sempre in bilico fra realtà e fantasia. Incomprensibile a tratti, ti confonde con i suoi continui rimandi a bambini e bambole, ugualmente capaci di animarsi, di vestire vestiti nei quali i bambini-persone cresceranno dentro mentre i bambini-bambole, come il fratellino, sono destinati a rimanere bambole per sempre.