Geoff Dyer


Il Paris Review ha intervistato Geoff Dyer riguardo il suo ultimo libro, Otherwise Known as the Human Condition (Graywolf Press, Marzo 2011). L’intervista la potete trovare qui.  In questa raccolta di saggi e articoli, Dyer afferma che il suo obiettivo non è di voler dimostrare una coerenza di temi nei suoi scritti quanto, al contrario, questo libro vuole essere una prova di quanto il suo percorso di scrittore abbia sempre evitato ogni tipo di specializzazione o continuità, ad eccezione di quella dettata dal suo desiderio di voler scrivere di qualsiasi cosa attirasse la sua attenzione in un dato momento. Questo risulta ancor più chiaro quando Dyer dice: “Scrivere per me è sempre stato un modo per non avere una carriera”.

Nei primi anni ’90 ho letto e amato (molto) Natura morta con custodia di sax (1993) ovvero  una serie di ritratti «impressionisti» dei grandi del jazz descritti, come spiega Dyer, con un imaginary criticism. Da allora il mio feeling con Dyer è sempre stato forte.  Dyer si muove fra generi diversi (saggistica, reportage, narrativa) con la stessa naturalezza, spesso mischiando i generi, e questo contribuisce ad alimentare la fama di Dyer come uno scrittore non etichettabile. Alcuni suoi libri sono prettamente di narrativa, per esempio: In Cerca (1996) romanzo  definito “metafisico”, del quale ricordo una citazione impressa sulla quarta di copertina “…si domandò se la fuga non potesse essere la miglior forma di inseguimento“. Il libro narra di un investigatore privato ingaggiato per ritrovare un uomo d’affari scomparso. Questa caccia all’uomo si trasforma in un gioco di indizi, allusioni, rinvii e presagi che portano braccatore e braccato a scambiarsi di ruolo. In sintonia con lo stile narrativo di Dyer, il detective di In cerca si muove guidato più dall’ istinto che da una logica deduttiva, attraverso scenari che possono stimolare  gli appassionati di fotografia, architettura e cinema. L’ ultimo lavoro di narrativa Amore a Venezia Morte a Varanasi (Einaudi, 2009) è diviso in due parti nette, come già si intuisce dal titolo,  cosa che ha lasciato spiazzati parecchi lettori (ho letto critiche feroci da parte di alcuni lettori che hanno definito il libro come l’insieme di un racconto brutto e di un reportage inconcludente). Io, come detto, per Dyer ho un debole e quindi me lo sono goduto tutto. La prima parte per le atmosfere di Venezia pennellate con eleganza, senso dell’ assurdo e umorismo e con la presenza di frasi, come Dyer scrive nelle note finali, tratte da Morte a Venezia di Thomas Mann. La seconda (motivo prettamente personale) perché ero reduce da un viaggio in India e tornarci con le parole di Dyer è stato un bel regalo.

La bibliografia completa si può trovare per esempio qui. Non ho letto tutto di Dyer ma l’ho sempre sentito vicino. La sua scrittura è allegra e spensierata tanto quanto è precisa ed elegante. Oserei dire, aperta: leggendo si vola sulle frasi con una visione aerea nella quale qualche dettaglio sfugge, ma non importa perché il panorama è comunque assuefacente. Elogio dell’ imperfezione, forse. Ovviamente non intendo imperfezione della scrittura ma imperfezione dell’ immagine, come fosse appena sfuocata.

E poi, leggendo Dyer, si nota che lui si diverte. Si diverte a scrivere e a essere uno scrittore. E questa credo sia la cosa più bella.

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