Nella postfazione al suo “Natura morta con custodia di sax”[Einaudi, 2013 – Instar, 1993], Geoff Dyer fa riferimento alla ‘repubblica del jazz’. Dyer la propone come risposta a una domanda di George Steiner il quale, nel suo studio “Vere Presenze” [Garzanti, 1998], ci chiede di “immaginare una società dove sia vietata ogni discussione che verte sulle arti, sulla musica e sulla letteratura”. In una simile società non esisterebbero più saggi sulla pazzia vera o presunta di Amleto, nessuna recensione dell’ultima mostra o del romanzo appena uscito, nessun profilo di scrittore o di artista. […] Ci troveremmo invece all’interno di “una repubblica per scrittori e lettori”, dove l’incontro fra i creatori e i loro destinatari non sarebbe più mediato dagli opinionisti di professione.
Che tipo di repubblica sarebbe mai questa? Si chiede Dyer anticipando la nostra curiosità. E le arti avrebbero forse a patire per l’eliminazione di quello strato di ozono che è il commento? Nient’affatto, risponde Steiner, in quanto ogni esecuzione di una sinfonia di Mahler è anche una critica della sinfonia stessa. L’esecutore, a differenza del recensore, “investe il proprio essere nel processo interpretativo”: la sua interpretazione è di per sé stessa un atto di responsabilità, perché l’esecutore si chiama in causa nel proprio lavoro in misura neanche lontanamente paragonabile all’intervento del sia pur scrupoloso esegeta.
Il nocciolo del discorso è che “qualsiasi forma d’arte è già una forma di critica” […] tutte le opere letterarie, musicali, figurative “incarnano una riflessione espositiva o un giudizio di valore sulla tradizione e sul contesto cui appartengono”. In buona sostanza, riprendendo le parole di Steiner, “La migliore lettura dell’arte è l’arte”.
Si fa fatica anche solo a immaginare una società priva di quel costante rumore di fondo che è la critica. Steiner stesso, dopo aver invocato questo scenario utopico, lo congeda affermando che “la fantasia che ho abbozzato rimane soltanto una fantasia”.
Ma è a questo punto che Dyer interviene per tenere viva la fiammella della speranza: “Questo luogo esiste davvero e per quasi tutto il nostro secolo milioni di persone hanno potuto trovarvi una dimora senza frontiere. Il suo nome è molto semplice: la repubblica del jazz”.
“Il jazz, come tutti sanno, è nato dal blues. Fin dall’inizio si sviluppò grazie al forte spirito di gruppo che accomunava spettatori e musicisti. Negli anni Trenta chi – come Charlie Parker – andava a sentire Lester Young e Coleman Hawkins a Kansas City aveva la fortuna di potersi unire a loro in jam sessions fuori orario che si protraevano fino al mattino. Miles Davis e Max Roach esercitarono il loro apprendistato dapprima ascoltando Parker, e poi suonando insieme con lui al Minton’s e nei locali della Cinquantaduesima Strada. […]”. E fu lo stesso per le generazioni successive: John Coltrane, Herbie Hancock e tutti gli altri jazzisti che infiammavano le serate tra gli anni Settanta e Ottanta. Questo continuo passaggio di testimone da una generazione alla successiva ha fatto sì che non si perdesse mai di vista l’impulso animatore delle radici.
Alcuni brani sono diventati così famosi e suonati così frequentemente da diventare degli standard. “Non c’è jazzista sulla faccia della terra che non sia cimentato, per esempio, con Round Midnight di Thelonious Monk, mettendolo di volta in volta alla prova e cercando di tirarne fuori sempre qualcosa di nuovo. Ogni interpretazione successiva va così ad aggiungersi a quello che Steiner chiama un corso articolato di critica in atto“
Come potremmo allora immaginarci quella repubblica degli scrittori ipotizzata da Steiner? Il paragone è certamente azzardato, eppure mi chiedo: quali potrebbero essere i corrispettivi letterari degli standard jazz? Ha senso ipotizzare la dinamica della critica in atto anche nel campo della letteratura?
A differenza del jazz, che ha una storia relativamente breve, la letteratura affonda le proprie radici fino agli albori della storia dell’uomo e ha continuato a ramificarsi seguendo lo sviluppo delle civiltà fiorite nel corso dei secoli. Per quanto la definizione di cosa costituisca un testo di letteratura sia per certi versi soggettiva, nella vastità della produzione scritta emergono alcune tematiche ricorrenti. Penso alla mitologia greca e romana e ai loro corrispettivi nelle civiltà non europee. Penso allo sforzo tutto umano di provare a dare una risposta alle domande esistenziali: la nostra origine e la morte. E ancora, la relazione dell’uomo con il mondo naturale e la società. Racconti di esplorazioni e viaggi eroici.
Potrebbero essere questi gli standard letterari? È appropriato considerare come critica in atto il lavoro di autori che, ciascuno a modo proprio, hanno affrontato questi temi nelle loro opere letterarie?
La storia della letteratura però, a un certo punto cambia direzione. Si potrebbe identificare la fine del XIX secolo come il periodo in cui la produzione scritta si è allineata al fermento culturale e ai cambiamenti in corso. In quegli anni nasce la psicoanalisi, si consolidano i diritti civili e il ruolo del singolo individuo nella società cambia drasticamente. Si assiste a un progressivo allontanamento dall’epica e a una maggiore presa di coscienza dell’uomo comune. Oggetto della produzione artistica non è più l’eroe, il realismo è nel pieno della sua espressione e nelle opere letterarie trovano spazio le persone comuni, la realtà nuda e cruda rappresentata senza il filtro delle figure retoriche. Questo passaggio storico, a mio parere, è il momento in cui l’idea stessa di letteratura inizia a sfilacciarsi, a diluirsi, a ramificarsi in un’infinita gamma di rappresentazioni che sono più vicine all’uomo comune ma che perdono di vista la strada maestra, non più standard ma un’infinita gamma di improvvisazioni singole.
Se Steiner ipotizzava una società priva del brusio di fondo della critica, al giorno d’oggi non solo ci si lamenta perché ci sono pochi lettori, ma, fenomeno ancor più deleterio, si assiste a una produzione di libri in quantità spropositata. Certo, non tutti gli autori ambiscono a produrre un’opera di letteratura ma se di fronte agli scaffali di una libreria provo la stessa sensazione che ho fra le corsie di un supermercato davanti allo scaffale dei dentifrici, allora credo che il vero senso della letteratura ci stia scappando di mano. È evidente che la stragrande maggioranza dei volumi sugli scaffali siano pensati come mere operazioni commerciali (spesso fallimentari) con la sola funzione di intrattenimento. Niente di male, certo, ma che ne è stato della letteratura come strumento per ampliare gli orizzonti della conoscenza, per stimolare il pensiero critico, per interpretare le tematiche fondamentali della vita umana?
Se scrivo questo è proprio per l’altissima considerazione che ho della letteratura, della sua storia, del suo valore e potenzialità, e qui il dito andrebbe puntato verso un certo tipo di editoria che ha perso di vista quello che dovrebbe essere il suo ruolo primario. Tornando all’inizio, all’analogia con il jazz, mi chiedo: quale scrittore (o quale editore) si pone come obiettivo quello di emulare i grandi maestri? Chi sta lottando per far sì che la produzione letteraria non perda di vista il proprio ruolo? Chi veramente non scende a compromessi e mantiene alta l’asticella?
È una questione soprattutto di tematiche. Ci sono libri scritti in modo eccelso su tematiche che hanno un’importanza marginale. Non riescono a contribuire al dialogo e alla ricerca intellettuale nel senso più ampio (e più alto) del termine; non riescono a portare alcun contributo in senso sociale, culturale, storico. Rimangono virtuose espressioni di piccole problematiche personali. Spesso sembra che chi si mette a scrivere un libro abbia come unico obiettivo quello di salire sul palco per eseguire il proprio assolo. Per quanto virtuoso possa essere, rimane un assolo slegato dal contesto, o comunque incapace di mettere in pratica quella critica in atto così cara ai jazzisti.
L’impressione è che lo sforzo del disporre una parola dopo l’altra, una frase dopo l’altra, miri soltanto a raggiungere il famoso quarto d’ora di notorietà di Warhol, mentre ciò di cui più avremmo bisogno – parafrasando parole non mie – è riscoprire il valore di cinque minuti di anonimato.