La montagna ha sempre un effetto catartico su di me. Ogni volta che salgo oltre i 1500 o 2000 metri ho la netta sensazione di una piccola metamorfosi interna. Una trasformazione che va dalla testa ai piedi, passa per i polmoni e invade cuore e muscoli. In montagna mi sento più forte. La montagna esige che uno si senta forte.
Provo un piacere virile nel mettermi gli scarponi, nell’indossare giacconi di lana spessa, nel calarmi il berretto sugli occhi, nel grattarmi la barba increspata dai cristalli di ghiaccio. Mi sembra sempre di essere messo alla prova quando cammino in montagna. I boschi mi guardano pacifici, severi, e io devo dimostrare di essere degno di andare a disturbare il loro silenzio.
È quindi una trasformazione fisica: tutto il corpo risponde, il cuore pompa sangue ai muscoli, le gambe ingranano lungo la salita, i polmoni si riempiono di aria cristallina e poi il fiato esce dalla bocca come vapore da una locomotiva. Ma è nella testa che la trasformazione assume il suo reale significato. È in quello spazio fra cuore e mente che la montagna esercita su di me il suo impatto più duraturo.
Negli ultimi anni, le montagne che mi hanno accolto sono state soprattutto quelle della Valle d’Aosta. È al cospetto del Monte Bianco e della catena del Rosa che trovo, o quanto meno cerco, un senso appartenenza. È ai pendii rocciosi e alle punte dei larici che mi rivolgo per trovare un’identità. È lungo quei sentieri che riconosco le impronte dei miei scarponi.
Ogni viaggio verso la montagna passa inevitabilmente da Como, mia città natale. Dal balcone della casa dei miei genitori, la notte si apre davanti ai miei occhi. Guardando verso nord vedo i tetti delle case del centro e in fondo la cupola del duomo, a est Brunate e le lucine della funicolare, a ovest Monte Croce, e più in fondo il nero del lago, racchiuso tra i pendii ripidi che lo hanno accolto cinquanta chilometri più a nord.
Il locale preferito della casa è lo studio con le librerie. A ogni passaggio un piccolo e discreto saccheggio. È da quegli scaffali che ho prelevato i libri che ora conservo nella mia libreria come i più cari. A quest’ultimo giro ho chiesto solo un libro il quale, forse perché appoggiato di piatto, mi era sempre sfuggito. Eppure, appena me lo sono trovato davanti, mi è apparso chiaro il ricordo della prima volta che lo avevo visto, molti anni fa, da bambino. È uno di quei libri che allora potevo a malapena toccare, tanto sono fragili le sue pagine. Sto parlando de La Tradotta – la rivista della terza armata – ed. Mondadori, un volume che raccoglie l’intera collezione, dal numero 1 (21 Marzo 1918) al numero 25 (1 Luglio 1919), del giornale di trincea che veniva distribuito ai soldati durante l’ultimo periodo del primo conflitto mondiale. La rivista, come spiegato nell’introduzione, era stata pensata come un giornale settimanale illustrato, d’indole gaia, da diffondere largamente tra i soldati.
Come viene sottolineato in questa lettura approfondita, La Tradotta è […] un “foglio di parte”, un “giornale di trincea” estremamente e rigidamente schierato con l’esercito italiano e (seppur in parte e più tiepidamente) con i suoi alleati stranieri […], non devono oggi stupirci o sorprenderci (o indignarci) le pesanti dosi di retorica vetero-nazionalista, né come al nemico austro-ungarico e tedesco fossero riservati sempre e comunque ritratti beffardi, canzonatori e goliardici, fino ad arrivare a perfide (e spassose!) raffigurazioni dal gusto lombrosiano e agli annosi luoghi comuni anti-germanici (la testa dura, le patate e le salsicce, le donne brutte, la brutalità, l’ottusa bellicosità, etc.). Tutto va contestualizzato e ricondotto al proprio tempo.
Innegabile quindi il valore storico, ma non è da meno il valore artistico delle illustrazioni, dei fumetti e del processo di stampa che oggi, chiaramente, sembra lontano anni luce: […] In tipografia venivano stampati due fogli, con una facciata a colori (tricromia e quadricromia) e una in bicromia (principalmente ciano/nero, giallo/nero e magenta/nero); nella successiva fase di piegatura e taglio le facciate a colori diventavano la copertina (pag. 1), la doppia pagina centrale (pagg. 4 e 5) e la quarta di copertina (pag. 8); in bicromia erano dunque le pagine 2, 3, 6 e 7.
A parte il valore storico, sociale o artistico, a questo volume sono particolarmente affezionato perché ha fatto riaffiorare ricordi che se ne stavano sepolti sotto la neve, perché prima di essere arrivato in casa dei miei era stato su qualche tavolo in casa di mio nonno: quello che non ho mai avuto modo di conoscere, quello dal quale, forse, nasce il mio senso di appartenenza alle montagna, quello che giovanissimo si è unito alla prima guerra mondiale, e poi, già quasi vecchio, ma non abbastanza, è stato chiamato a combattere in Grecia e in Albania.
Ecco, per me, questa rivista è un pezzo in più del puzzle che sto assemblando, è una foglia al termine di un ramo del mio albero genealogico. Contribuisce a mettere a fuoco l’immagine di mio nonno. E perciò è importante.
Questa l’introduzione al volume:
Nei primi mesi del 1918, il Colonnello Ercole Smaniotto, Capo dell’Ufficio P. della Terza Armata, diede l’incarico al Sottotenente Renato Simoni di compilare un giornale settimanale illustrato, d’indole gaia, da diffondere largamente tra i soldati. Stabiliti, con l’alta approvazione di S.A.R. il Duca d’Aosta e con la viva, continua, affettuosa adesione del Colonnello Smaniotto, il programma e la veste del giornale, scelto per esso il titolo, il Sottotenente Simoni chiese e ottenne che la redazione de “La Tradotta” fosse composta dai pittori Enrico Sacchetti, Capitano Umberto Brunelleschi, Tenente Giuseppe Mazzoni, già addetto all’Ufficio P. dell’Armata, Sottotenente Antonio Rubino, non solo illustratore ma anche redattore per la parte letteraria, e Tenente Gino Calza Bini. Arnaldo Fraccaroli collaborò largamente al giornale, che si valse anche della spiritosa matita del Capitano Riccardo Gigante. La sede del giornale era a Mogliano Veneto; la tipografia, a Venezia, poi a Verona e Reggio Emilia. “La Tradotta” divenne presto popolarissima, e continuò a uscire durante l’ultimo meraviglioso anno di guerra, fin dopo l’armistizio e la pace. Gli ultimi numeri furono, infatti, pubblicati a Trieste. “La Tradotta” non poté giustificare puntualmente la sua qualifica di settimanale, ché la stampa a colori, lenta, richiese spesso maggior tempo del previsto; ma nei grandi giorni dell’avanzata poté lanciare rapidamente supplementi in nero, che gli aeroplani portavano ai soldati. Il Colonnello Smaniotto non vide le ultime puntate del giornale. Questo magnifico organizzatore di efficaci propagande e di rapidi, arditi e sicuri sistemi di informazione dalle Terre invase, morì di “spagnola” poche settimane prima della Vittoria. Gli succedette nell’alto ufficio e nel patronato de “La Tradotta” il Colonnello Ponza di San Martino. Per spiegare sommariamente la distribuzione del lavoro, per la parte letteraria, ché lo stile delle illustrazioni valse per essa come una firma, basterà dire che i versi della terza pagina, molte delle storielle illustrate e articoli si debbono al Simoni, il fiore dell’ampia collaborazione di Antonio Rubino è costituito dalle Lettere del Caporale C. Piglio, e con il nome di Soldato Baldoria, scriveva Arnaldo Fraccaroli.
Qui sotto una piccola galleria di immagini (click per ingrandire)