Mi trovo a pensare al fatto che il dove e il quando leggiamo un libro abbiano un ruolo fondamentale nella nostra esperienza di lettori. Riguardo il quando si potrebbe argomentare che leggere un libro alle prime luci del mattino, o nel pieno sole del mezzogiorno, o di sera, o a notte fonda, possa variare la nostra percezione del messaggio del libro. Può essere, in parte, ma non ne sono completamente convinto. Ben più forte invece è il valore del quando riferito all’arco di una vita. In questo caso, il momento storico nel quale si vive è sicuramente un elemento fondamentale. Ancora più importante, a mio parere, è il quando riferito alla propria storia personale: l’infanzia, la maturità, la vecchiaia. Se non avessi letto Siddartha a 16 anni, sarebbe cambiato qualcosa? Se lo leggessi ora, a quarant’anni, avrebbe lo stesso fascino? Metterei a confronto il mio percorso personale con quello del giovane protagonista del libro?
Lo scorso Dicembre, alla fiera della piccola-media editoria di Roma, Più Libri Più Liberi, sono andato con un’idea precisa (oltre a quella di salutare alcuni amici): comprare un libro della casa editrice Mattioli 1885. Innanzi tutto perche sono libri bellissimi (come oggetto) e poi perché sono loro che hanno pubblicato “Non abitiamo più qui” di Andre Dubus (libro che meriterebbe un post ad hoc e non solo una menzione qui). Era parecchio tempo (parecchi libri) che non mi trovavo a girare le pagine ignorando sveglie, debiti di sonno, che non mi ritiravo in bagno con un libro in mano, che non portavo un libro al lavoro per leggerne almeno alcune pagine in pausa pranzo. Con Non abitiamo più qui mi è successo tutto questo e mi sono chiesto il perché. Sicuramente perché la scrittura di Dubus, per le mie orecchie, è splendida, perché è esattamente così che io ascolto le cose ed è così che, permettetemi l’infantilismo, vorrei riuscire a scrivere. Ma c’è un’altra cosa, la più importante, ed è che ciò che viene descritto nel libro è particolarmente vicino e rilevante per il mio momento storico, come uomo.
Se lo avessi letto da giovane o da appena sposato, forse sarei rimasto turbato dalla ragnatela di non-detti, di ripicche, litigi, di routine e disillusione che avvolge le due coppie di coniugi descritte nel libro di Dubus. Forse avrei cercato di intravvedere negli occhi della mia fidanzata le avvisaglie di litigi futuri e forse avrei optato per spostare il matrimonio un po’ più in là. Se lo avessi letto da anziano, forse avrei guardato Hank, Edith, Jack e Terry (i quattro protagonisti) con un velo di commiserazione e avrei detto, ah i giovani, e poi mi sarei compiaciuto del mio matrimonio, dicendo: beh, infondo a me è andata bene. E invece lo leggo ora, quattro decadi sulle mie spalle e più di un decennio di vita coniugale e mentre accompagno mio figlio a scuola osservo i miei occhi mentre guardano le sue maestre e le mamme dei suoi compagni. Osservo i miei occhi mentre guardano mia moglie che stende l’ennesimo carico di bucato e vedo le rughe che si formano sul mio volto mentre appoggio la cartella del lavoro in ingresso e mi chino per infilare le ciabatte. E questo solo perché il libro di Dubus l’ho letto ora.
Sempre in fiera, sempre allo stand Mattioli 1885, ho comprato un altro libro, un acquisto istintivo, non premeditato: l’ho visto e Bret Harte, l’autore ritratto in copertina in una foto color sepia, mi ha strizzato l’occhio e Storie del West è finito in borsa. Si tratta di una raccolta di racconti ambientati a metà del diciannovesimo secolo nell’ovest americano, il periodo dei pionieri, della corsa all’oro. I protagonisti sono uomini rustici, teneri mascalzoni che si sciolgono davanti alla nascita di un bambino o quando conoscono una ex-prostituta che da anni accudisce il suo ultimo cliente, malato e immobilizzato su una sedia. Ci sono zuffe, giocatori d’azzardo e sfide a colpi di rivoltella. Ecco, questo libro mi è piaciuto leggerlo in montagna, al paese, perché mi sembrava che non ci fosse molta differenza tra i teneri balordi dei racconti di Harte e alcuni degli uomini che vedevo appollaiati al bancone del bar con gli scarponi, il berretto e il naso rosso. Allo stesso modo mi è piaciuto leggere i libri di Jack London nel bosco, sparapanzato su un prato, gli attrezzi da lavoro appoggiati di fianco a me, nella solitudine e nel silenzio dei fruscii e degli schiocchiolii degli alberi. Oppure leggere Haruki Murakami sugli autobus, immergermi nelle sue bolle di irrealtà e dimenticarmi di scendere alla fermata giusta. O ancora rileggere Bohumil Hrabal subito dopo la visita di un vecchio amico. E poi leggere in aereo, leggere nelle camere d’albergo, quando lo straniamento della solitudine viene accarezzata dalle dita che scorrono sulle pagine, quando leggere vuol dire dare tutto se stessi a un libro, perché non c’è nessun altro in giro a cui darsi.
Leggere: un’esperienza così personale. Non sono il primo a dirlo ma sono sempre più convinto che leggere vuol dire, soprattutto, leggere se stessi.
4 thoughts on “Leggere dove, leggere quando”
mi viene in mente, al proposito, un articolo di steve allen sulla lettura dei classici, in cui lui dice tra l’altro: “a volte potreste noi essere pronti per leggere quel particolare libro. ho preso in mano la “repubblica” di platone tre volte prima che cominciasse a dirmi qualcosa. e ne valeva la pena, eccome! perciò se proprio non riuscite ad affrontare un classico mettetelo da parte per un altro giorno o anno, e prendetene un altro.” e sul ritmo e il mettersi nel giusto stato d’animo: “quando leggete “zorba il greco” mettete della musica bouzouki; con proust va bene un po’ di debussy; con shakespeare la musica elisabettiana”. questo per dire che sì, quando, come e dove si legge può contare. grazie per la riflessione. anna albano
Ciao Anna, grazie per la visita e per il tuo commento. Al tuo blog sono arrivato tramite il post su Joe Lansdale (che seguo su fb). Dopo pochi click ho subito messo il tuo fra i miei favoriti. Mi ripropongo di tornarci e leggere gli altri post. Già vedo che è molto ricco e interessante. A risentirci quindi. Marco
a risentirci, e molto volentieri, marco. aa
Penso anch’io, piuttosto spesso, a come i libri sono una combinazione tra ciò che è stato scritto, e il lettore che le sta leggendo. Citi Siddartha: l’ho letto a 14 anni, e mi ha letteralmente cambiato la vita, ma, lo ammetto, non vorrei rileggerlo ora: il mio timore è quello di non ritrovare più ciò che avevo trovato allora.
Mi è successo con “Il giovane Holden”, letto e amato a 12 anni, riletto a 30 senza riuscire a trovare nulla di veramente interessante. Sempre di Seymour, “Alzate la trave carpentieri, e Seymour, un’introduzione”: letto a 12 anni e non capito, letto a 30 e amato, letto a 37, e mi sono domandato: così banale? Due o tre anni fa mi è stato consigliato “Norwegian Wood”: ho iniziato a leggerlo, ma a pagina 100 mi sono fermato, con il rimpianto di non averlo letto vent’anni prima.
“Non abitiamo più qui” è un romanzo (perché, nonostante sia formato da tre racconti autosufficienti, è un romanzo vero e proprio) per uomini sposati – un romanzo doloroso, duro, impietoso, che ci costringe a fare i conti con noi stessi. Non credo che a un ventenne direbbe qualcosa: è necessario aver vissuto certe esperienze, per capire, o averle almeno intraviste.
Henry James diceva “Tell a dream, lose a reader”. Letteralmente, significa che la gente non è interessata ad ascoltare i sogni degli altri (lo sappiamo bene, quando la mattina cerchiamo di condividere le storie assurde che ci accadono mentre dormiamo); c’è però un’eccezione, facilmente sperimentabile: gli altri ascoltano i nostri sogni se questi parlano di loro. In senso più ampio, “Non abitiamo più qui”, letto da un ventenne, è un sogno in cui il lettore non è uno dei protagonisti, mentre per un quarantenne è una qualche forma di possibile verità….