Altre volte ho avuto lavori all’aperto ma questo li batte tutti. Cosa ci può essere di meglio che svegliarsi al mattino, alzare la cerniera della tenda e trovarsi di fronte il sole che si specchia nel lago? Oppure infilare gli scarponi e muovere i primi passi del giorno su un tappeto di foglie, circondati dal profumo vaniglia dei tronchi di pino? No, non credo ci sia di meglio. Quando poi alla sera si torna al campo, esausti dopo aver camminato tutto il giorno nel bosco, il fascino del lago è irresistibile. E allora si prende la canoa. Il sole si appoggia lentamente sulle punte degli alberi più lontani, lancia gli ultimi riflessi sul lago e poi scompare dietro le montagne. È in quel momento che si cominciano a sentire i rumori del bosco. È come se durante il giorno la presenza del sole fosse quasi rumorosa, come se si prendesse tutta l’attenzione: il sole illumina e colora ogni cosa e al silenzio non ci si fa caso. Con il buio invece, o con la presenza discreta della luna, il bosco si riempie di suoni e fruscii, rami che sbattono, foglie mosse dal vento e tronchi che scricchiolano. Stare fermi in mezzo al lago seduti su una canoa è come essere al centro di un grande palcoscenico: l’orchestra del bosco di notte.
Il lago presso il quale siamo accampati si chiama Little Cultus. Dall’altra parte, oltre la montagna, c’è il Big Cultus, e già lì ci si avvicina di più alla civiltà: c’è il piccolo campeggio dei pescatori e la baita. Dalle nostre tende si può raggiungere il Big lake pagaiando fino alla fine del Little lake e poi proseguendo a piedi per un ora oltrepassando il dosso fra due montagne. Noi però ci andiamo con il pick-up di JerBear, e qualche volta si unisce anche Jobal che si butta dietro nel cassone e lancia urli verso il bosco. Dopo giorni e giorni di cene attorno al fuoco a mangiar fagioli e carne in scatola, è impagabile sedersi al tavolo della baita e divorare piatti di arrosto, purè di patate, e bere birre alla spina. Cosa si può volere di più? Finito di mangiare ci sediamo vicino all’acqua e guardiamo i pescatori riordinare la loro attrezzatura e intanto scrutiamo il cielo. Che tempo farà domani? È in quei momenti che io dico che altre volte ho avuto lavori all’aperto ma che questo li batte tutti. – Meglio che svuotare barili di olio in officina o lavorare in un fast-food – dice JerBear – Non c’è paragone. – Sì, però quando qui arriverà la neve e dovremo smontare le tende io voglio viaggiare, voglio vedere qualcos’altro, oppure voglio cercare un posto e chiamarlo casa. E questo JerBear lo dice mentre i suoi occhi guardano lontano come se mentalmente stesse già immaginando la casa che sta cercando. – Che razza di programma è? Vuoi viaggiare o vuoi fermarti? JerBear non risponde, forse non sa cosa rispondere. Cambia discorso e dice che ho ragione, questo posto è davvero uno spettacolo. Intanto siamo tornati al silenzio. Guardo il lago, respiro e fisso nella mia mente quell’immagine nuova ma famigliare. E io? Come avrei risposto? Il suono delicato delle onde contro la riva mi fa venire in mente il mio lago. Il panorama che mi sta di fronte è nuovo e sconosciuto ma suscita in me una sensazione di calma e tranquillità. In qualche modo è una scena famigliare perché mi ricorda qualcosa che già conosco. Per tutti questi mesi ho posto la mia attenzione non sul nuovo che richiama un ricordo ma sul nuovo che scombina, il nuovo che ti arriva allo stomaco come un pugno. Di fronte a quel tipo di nuovo non hai riferimenti, niente del passato ti può venire in aiuto per interpretarlo. Eppure è quel tipo di nuovo che, mi rendo conto, ha sempre guidato il mio viaggio. Sono sensazioni assuefacenti che mi fanno vibrare le membra e mi costringono a tenere gli occhi ben aperti, a dilatare i sensi per riuscire a carpire ogni segnale. È quel tipo di nuovo che mi ha sempre tenuto vivo.
Prima di rientrare al campo JerBear vuole sempre fare due telefonate: una a suo fratello e una a suo figlio. Anche se non riesce quasi mai a trovarlo a casa, JerBear vuole parlare con suo fratello per assicurarsi che ci siano ancora tutti i mobili nell’appartamento che gli sta lasciando usare. L’anno scorso, mentre JerBear era in una delle sue abituali fughe (quella volta a pescare granchi su un peschereccio al largo dell’Alaska) suo fratello e la sua ragazza hanno venduto ogni singolo oggetto che si trovava nell’appartamento di JerBear. I soldi per procurarsi la droga non erano mai abbastanza e uno a uno hanno venduto tutto, fino a rimanere seduti per terra: qualche cuscino, il frigo per metterci la birra e per far invecchiare i cartoni della pizza, e il telefono. La promessa del fratello di ripulirsi, di trovare un lavoro in un fast-food e di restituire tutto era andata in fumo, come tutto il resto. Suo figlio invece lo chiama per fargli sentire la sua voce, per dirgli che papà sta lavorando ma che andrà a trovarlo presto, per dirgli di comportarsi bene a scuola e di farsi valere. Di non farsi mettere i piedi in testa, di camminare sempre a testa alta e di guardare lontano con lo sguardo. Suo figlio, JerBear, non lo ha mai avuto in casa. Con la madre di suo figlio sono andati d’accordo giusto la sera del concepimento e il giorno in cui il figlio è venuto al mondo. In quel momento JerBear aveva pensato che forse si poteva aggiustare tutto, che suo figlio avrebbe meritato di avere un padre e una madre, insieme, sotto lo stesso tetto. Ma è stata un’illusione durata poche ore. Non era certo diverso da tutti gli altri che vedeva intorno a se: figli spaiati, coppie sulla carta, litigi e procreatori seriali, come un suo amico d’infanzia che aveva talmente tanti figli in giro che tutti erano convinti che avesse il potere di mettere incinta una donna soltanto baciandola. Quando riesce a parlargli, suo figlio gli dice che sta bene e che è il più bravo a fare i salti con la bicicletta, non come quelle schiappe dei suoi cuginetti. Che poi non sono veramente cuginetti: quando JerBear disegnava l’albero genealogico per terra loro erano due ciuffetti di pino, erano i figli di suo padre, gli altri, quelli avuti dalla segretaria. Ora giocavano tutti insieme e a loro, almeno ancora per qualche anno, sarebbe sembrato tutto normale.
American Country
fotografie dall’America più remota.
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