Maggio

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Conoscete la storia di Rodriguez? Bene, allora comincio da qui. Sixto Rodriguez è nato nel 1942, a Detroit. Negli anni settanta era poco più di un ombra che si aggirava nelle strade fra pozzanghere e il fumo degli sfiatatoi. Lo vedevano camminare, altissimo, magrissimo, ingobbito, col cappello da cowboy. Lo hanno visto suonare e c’è chi dice che quando intonava le sue canzoni con la chitarra si metteva con la schiena rivolta al pubblico. C’è chi dice che era uguale a Bob Dylan, anzi meglio. Rodriguez fissava sempre gli appuntamenti all’angolo della strada perché in quegli anni viveva da nomade urbano. Nel 70 e nel 71 ha pubblicato due album: Cold Fact e Coming from Reality per la Sussex Records. Risultato: pochissime copie vendute e rescissione del contratto. Tutto qua. Sixto, per campare, si mette a lavorare come operaio, lavori manuali, demolizioni, e prosegue la sua vita in uno stato di semi povertà. Poi accade che, mentre Rodriguez si spezza la schiena, qualcuno porta una copia dei suoi dischi in Australia e in Sud Africa e lì la sua musica si espande a macchia d’olio. Diventa famoso, famosissimo, tutti conoscono la sua musica. Sono gli anni dell’apartheid e i suoi versi diventano l’inno della nuova generazione. Rodriguez è un mito, anche se nessuno l’ha mai visto in faccia e addirittura circola la voce che si sia ucciso sparandosi un colpo di pistola in testa, live, sul palco. Passano vent’anni e due suoi fan, in Sud Africa, decidono di mettersi sulle sue tracce per scoprire se veramente Rodriguez è morto, per svelare il mistero. Dopo numerosi tentativi riescono a scovarlo. Rodriguez è vivo!  Vanno a prenderlo, lo portano in Sud Africa e subito viene accolto come un eroe, un mito vivente. Da lì partono i tour, le apparizioni televisive e Rodriguez, sul palco del suo primo concerto a Città del Capo, rivolgendosi al pubblico dice: finalmente sono tornato a casa. Che storia. Uno di quei casi nei quali la realtà supera la fantasia. Tutta questa vicenda è stata raccontata in un film-documentario, Searching for Sugar Man, presentato nel 2012 al Sundance Film Festival. Il film è stato accolto con entusiasmo, ha vinto premi, e io l’ho scelto nel menù d’intrattenimento sul volo Manila-Dubai della Emirates.  

Sempre in aereo mi sono imbattuto in un altro documentario, un’altra splendida storia, anzi due. Chopin saved my life segue la vicenda di Momoka, una pianista quindicenne di Sendai, in Giappone, una delle zone più colpite dal terremoto e dallo tsunami del 2011. Come reagire alla distruzione, alla perdita di famigliari e amici, alla desolazione della propria comunità? L’altra storia narrata nel documentario è quella di Paul, ventiduenne scozzese, anch’egli pianista, al quale, durante il primo anno di università, viene trovato un tumore al cervello e successivamente viene diagnosticata la sclerosi multipla. Arriverà a non poter più camminare e a perdere l’uso della mano destra. Sdraiato nel letto di un ospedale, fra un’operazione e l’altra, Paul ascolta dieci, cento, mille volte la prima ballata di Chopin in Sol minore. È quello stesso pezzo che, dopo l’ultima operazione, gli fa ritrovare la memoria e lo riporta nel mondo dei vivi. La stessa cosa accade a Momoka. Attraverso la musica di Chopin, e in particolare la prima ballata in Sol minore, riesce in qualche modo a ritrovare la speranza. La musica di Chopin le trasmette l’energia necessaria per poter guardare avanti. Ma non è solo energia, è anche la consapevolezza dell’esistenza della drammaticità. Momoka sente di potersi relazionare a Chopin. Nella sua ballata ci sono molti toni cupi, c’è disperazione, tragedia, e poi, col secondo tema, un raggio di speranza.  E così Paul, alla fine del documentario, si esibisce davanti a parenti e amici suonando la ballata di Chopin. Con una mano sola.

[Qui c’è un’ampia analisi del pezzo di Chopin] Qui sotto invece, per chi se lo fosse dimenticato, lo stesso pezzo suonato davanti a un ufficiale tedesco nel film Il Pianista di Polanski]

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=RQk3Zh71dGA&w=560&h=315]

E quindi Maggio è passato e queste storie mi sono rimaste dentro. Cosa potevo scrivere di più quando queste storie stavano entrando a far parte di me? In Maggio ho passato più di quaranta ore in aereo. In aereo si dorme, si lavora, si guardano film, e si pensa. E io pensavo ai fatti miei e pensavo a cose che volevo scrivere ma niente sarebbe stato più piacevole (e struggente) del rigirarmi in testa queste storie, queste immagini. E così per tutto Maggio non ho scritto niente qui (poco male, veramente) ma ora che l’ho fatto, mi sento in qualche modo sollevato. Forse ci voleva tempo per digerire queste grandi storie e ora sento di potermi rituffare nelle mie piccole storie e giocare coi protagonisti di qualche mio scritto che mi svegliano al mattino presto e mi fanno domande di notte e io gli chiedo perché? Cosa volete da me? Perché volete che racconti i miei segreti più profondi nascondendoli dietro alle parole di un personaggio? Perché? Me lo chiedo io stesso in questo dialogo schizofrenico che se non mi facesse anche ridere mi farebbe soltanto soffrire.

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