Parto da lontano.
In questa splendida canzone, San Diego Serenade, Tom Waits inizia così:
I never saw the morning till I stayed up all night
I never saw the sunshine till you turned out the light
I never saw my home town until I stayed away too long
I never heard the melody until I needed the song
Parafrasando Tom, io potrei dire:
Non ho mai visto la fotografia fino a quando le foto sono scattate davanti ai miei occhi.
È così. Ho sempre avuto una certa avversione nei confronti della fotografia. Scattare foto, sostanzialmente, mi è sempre sembrato inutile. Ci sono ragioni pratiche e concettuali. Quando vado in giro mi piace essere leggero. Non mi piace camminare con un aggeggio penzolante al collo. Mi piace muovermi mantenendo la convinzione che potrebbe succedere qualsiasi cosa. Ci potrebbero essere cambi di programma, opportunità, imprevisti, rischi da aggirare. Avere una macchina fotografica al collo potrebbe risultare più un impiccio che uno strumento utile.
Alla base del mio pensiero sulla fotografia però c’è la consapevolezza che una foto non potrà mai restituire la realtà del soggetto. Non potrà restituirne la tridimensionalità né tutto l’insieme di percezioni sensoriali che si provano quando, davanti a un soggetto o panorama che sia, ci fermiamo e diciamo, che bello, voglio fare una foto. Chi guarderà la foto in seguito avrà davanti agli occhi una rappresentazione piatta e vacua del soggetto originariamente fotografato. Piuttosto, mi sono fermato e ho scattato una mental picture davanti a un panorama o una situazione che volevo essere sicuro di ricordare. Basta schiacciare un piccolo bottoncino a lato della tempia e l’immagine sarà impressa nel cervello, e con essa tutto l’insieme di odori, rumori, sensazioni e stati d’animo che accompagnano il momento.
Precisazione: non ho niente contro la fotografia in se, e anzi trovo che alcune siano splendide e sembra proprio che lo scenario rappresentato possa trasmettere non solo un’immagine ma tutto un insieme di altri segnali sensoriali ad arricchire l’esperienza. Le sensazioni indotte dalla fotografia però vanno a pescare nel vissuto dell’osservatore, evocando esperienze già fatte che in qualche modo assomigliano alla situazione che viene rappresentata nella foto. Quindi non quelle relative al soggetto nella foto.
Va da sé che l’esuberante e dissennata diffusione del mezzo macchina fotografica e dei canali di diffusione e condivisione, non fanno altro che confermare la mia idea. Salvo poi rimanere vittima io stesso di questo scambio forsennato di immagini, sostanzialmente incomprensibili a tutti se non al proprietario della foto.
But men can change, of course.
E forse c’era bisogno di un cambiamento drastico. Di una mutazione sostanziale di scenari e profumi, di colori e suoni. Essere all’estero è un’occasione unica. Essere stranieri è l’unica forma di esistenza tollerabile. Abituarsi e adattarsi a un posto nuovo è un processo splendido. Fatto di piccoli passi, di quotidiane scoperte, di curiose incomprensioni, di gusti, odori e strette di mano. E di milioni di piccole fotografie che ti accompagnano anche di notte.
E quindi un po’di foto le ho fatte anche io, in una piccola gallery qui sotto; ma la questione rimane.
Roland Barthes, in questa bella intervista, ha espresso le sue idee sulla fotografia. Un estratto:
Se si vuole veramente parlare della fotografia su un piano serio, bisogna metterla in rapporto con la morte. È vero che la foto è un testimone, ma un testimone di ciò che non è più. Anche se il soggetto è sempre vivo, è un momento del soggetto quello che è stato fotografato, e quel momento non è più.
Ma è quest’altro passaggio che mi consente di arrivare al vero obiettivo di questo post:
Riassumendo, la fotografia non può essere trascrizione pura e semplice dell’oggetto che si dà come naturale, non foss’altro perché è piatta e non tridimensionale; e d’altra parte non può essere un’arte perché copia meccanicamente. Ecco la doppia sfortuna della fotografia; se si volesse costruire una teoria della fotografia bisognerebbe partire da questa contraddizione, da questa difficile situazione.
Questo stesso dilemma l’ho ritrovato nelle parole di Yuji Hamada, nel testo che accompagna una galleria fotografica pubblicata ad Aprile 2014 sulla rivista letteraria inglese GRANTA [Granta 127 – Japan: un numero interamente dedicato alle migliori nuove voci del Giappone].
Anche il fotografo giapponese si scontra con la delusione della bidimensionalità di una foto, con la crudele discrepanza tra realtà e soggetto rappresentato.
Questo il suo teso:
Primal Mountain – Yuji Hamada
tradotto dal giapponese da Ivan Vartanian (mia la traduzione dall’Inglese)
Nel Marzo del 2011 c’è stato il grande terremoto dell’est del Giappone. Da quel momento, la quotidianità ha iniziato a tremare fra le notizie inattendibile che venivano trasmesse dai media, l’informazione che ricevevamo, non combaciava con la realtà che stava davanti ai nostri occhi.
Intorno a quel periodo, un mio caro amico mi ha spedito una cartolina che ritraeva una splendida montagna svizzera. L’immagine era talmente pittoresca che più la guardavo più mi sembrava irreale, al punto che il mio cervello ha cominciato a percepirla come un disegno bidimensionale. Ho pensato al fatto che una fotografia, che dovrebbe catturare gli aspetti tridimensionali del mondo, viene percepita come qualcosa a due dimensioni.
Questo mi ha spinto a cercare materiali interessanti e facilmente reperibili. La scelta è caduta sui fogli di alluminio, per la loro caratteristica lucentezza e malleabilità. In cima a un tetto ho iniziato a fotografare i fogli sullo sfondo del cielo di Tokyo. Il fatto di scattare le foto sotto un cielo reale non va visto come un modo per far sembrare reale qualcosa che non lo è. Al contrario, il mio intento era quello di arrivare a conciliare il vero e il finto.
Con questo lavoro, la cosa più importante è l’immagine della montagna che si crea nella mente dell’osservatore. In altre parole, non è colui che ha creato l’immagine che stabilisce ciò che deve essere visto; piuttosto, consegno il lavoro alla prima impressione dell’osservatore, cosa che mi ha portato a intitolare la serie “Montagna primordiale”.
Qui il testo in Inglese e le fotografie di Yuji Hamada. L’immagine in alto invece è un mio tentativo di ottenere lo stesso effetto.
E questa la mia breve photo gallery.