Sfollati a Courmayeur – Emanuela Sebastiani

La guerra, e in questo caso intendo la seconda guerra mondiale, per chi oggi ha meno di settant’anni è un insieme di immagini confuse che la mente ha creato sulla base di nozioni scolastiche, raccconti frammentari di genitori e nonni, fotografie sgualcite in bianco e nero, qualche raro filmato; il tutto accompagnato da visite più o meno forzate a luoghi di importanza storica e monumenti ai caduti. Se non l’hai vissuta la guerra è difficile immaginarla. Anche i racconti di chi era vivo in quegli anni possono essere diversissimi tra loro. Una cosa è essere al fronte con un fucile in mano, un’altra è essere in città, le notti scandite dalle sirene del coprifuoco. C’è poi chi è riuscito a mettersi in una posizione defilata, un esilio non esattamente volontario e pur sempre accompagnato dai ritmi della guerra. Quando c’è, la guerra è ovunque, anche fra le pieghe dei monti, anche sotto lo sguardo severo del Monte Bianco.

Uno di questi microcosmi che si sono creati fra le pieghe della storia è quello che viene narrato in Sfollati a Courmayeur (Liaison Editrice) di Emanuela Sebastiani. Con la consueta precisione e verve linguistica, Emanuela ha scritto pagine che sanno trasmettere l’atmosfera di quelle storie cariche di significato ma raccontate con levità. Quelle storie che si ascoltano stando seduti a un tavolo di legno grezzo, mangiando pane e salame, o seduti su un masso lasciandosi sfiorare da quell’aria fresca che scende dai monti quando cala il sole.

Oltre a consigliarvi di comprare il libro, vi lascio alle parole di Emanuela che gentilmente ha accettato di rispondere ad alcune domande sul suo libro e sulla sua terra.

Sfollati a Courmayeur: che libro è?

È un album di ricordi, una testimonianza individuale e collettiva, un fondersi di voci, quella di Enrica Candiani, nata nel 1925, e della sottoscritta, giunta cinquant’anni dopo. Gli elementi si fondono: il confine fra scrittura biografica e narrativa sfuma, cronaca e percezione individuale si confrontano. ‘Sfollati’, per me, è stato un incontro con un altro mondo, quello del paese che abito e che pure non c’è più: la Courmayeur degli anni ’40.

Qual è stato il rapporto fra te e la co-autrice? Come si sono svolti i vostri incontri?

Il nostro incontro si deve a Cesare Bieller, un editore indipendente, un uomo di mondo (è diplomatico a New Delhi) che non ha perso il contatto con le proprie radici. È stato lui ad intuire il valore del racconto d’Enrica.

Ci siamo studiate, lei ed io, durante una decina d’incontri nell’arco di un anno. Di primo acchito ho apprezzato l’agio con cui snocciolava certi ricordi scarlatti, figure nobiliari, personaggi storici, come briciole d’una tavola umile e intima: come, appunto, frammenti di giovinezza. Nonostante sia stata testimone d’una fetta di storia del novecento, in questo angolo alpino e non solo, vive i ricordi con una leggerezza priva di protagonismo. Fra noi è nata un’affinità che posa sull’amore per Courmayeur, per la sua natura straordinaria.

Dopo Una CameronLa Terra dei Campioni (a proposito, 3 libri in due anni, complimenti!) un altro libro fortemente legato alla tradizione della Valle d’Aosta. Come ti trovi in questo ruolo di cantrice della tua terra? Scrivere questi libri è stato anche raccontare un po’ te stessa?

Curioso come tutti siano nati per caso. Mi sono piovuti addosso, per varie ragioni, ed ognuno ha ampliato i miei orizzonti. L’incontro con Una Cameron, scozzese, esploratrice e proto-femminista, lo devo di nuovo a Cesare. ‘La terra dei campioni’ è uno sguardo intimo agli atleti visionari della montagna, un dietro le quinte della prodezza fisica. La Valle d’Aosta è la mia casa, certo, ma non l’unica. Il mio cuore è rimasto ad Edimburgo, dove mi sono accampata per un quinquennio. Tuttora sono immersa in un universo linguistico anglofono: in inglese leggo, traduco e scrivo. Questa curiosa esperienza è simile al viaggiare in shuttle fra una dimensione montana, al riparo del massiccio del Monte Bianco, alle voci dell’India, del Canada, dell’Africa e di Londra; della costellazione, insomma, del mondo post-coloniale. Trovo che il microcosmo e la globalità in profondità si somiglino.

Com’è l’ambiente editoriale valdostano? Soffri la lontananza dai grandi centri (Torino, Milano, Roma) oppure godi della tua situazione in una realtà piccola e virtuosa?

La Valle d’Aosta è minuta. Tutti insieme facciamo appena centocinquantamila anime. L’editoria si confronta con questa realtà, deve; di recente, però, vibrano nuove energie. Le tecnologie consentono progetti ambiziosi, come quello della neonata E-Edizioni, di Aosta: una collana di audioracconti senza supporto cartaceo, cui ho l’onore di contribuire. Oggi si può lavorare in un bunker, in un bivacco a tremila metri, e rivolgersi al mondo. Il confronto con i centri nodali, al nord e al sud del paese, nonché all’estero, resta imprescindibile.

Cosa significa per te scrivere?

Ah, la domanda delle domande… Chi s’avventura nella giungla delle parole cerca, come tutti, un senso all’esperienza di camminare su questa terra. Il linguaggio dà la straordinaria, intricata possibilità di lasciare una traccia, non solo del sé ma di un mondo: quello che si abita, nel tempo e nello spazio. Scrivere è una ricerca che può non approdare a nulla, ma trascina con sé infiniti fossili contemporanei. Questi, si spera, faranno la ricchezza e la gioia di chi leggerà.

In quali progetti sei impegnata ora?

Un’altra biografia! Sembra sia il mio karma. Aggiungo che sto lavorando ad una novella ambientata in Sudafrica. Ho scelto di scriverla in Inglese.

Fatti una domanda e rispondi.

Quanto conta il giudizio dei contemporanei, dei colleghi scrittori e dei lettori?

Non ha prezzo. Credo che la crescita individuale, come narratrice, sia inseparabile da quella collettiva, d’un intera generazione. Come uno stormo d’uccelli s’avanza, seguendo il vento della contemporaneità. Leggersi l’un altro, confrontarsi, è necessario, almeno quanto lo è leggere i classici. A questi ultimi ci rivolgiamo per avere conferma che l’uomo, in queste migliaia di anni, non è cambiato; alla nostra generazione si chiede cosa preme all’orizzonte.

Ti ringrazio, Marco, per questo dialogo. Per me è un piccolo passo avanti.

Grazie a te!

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