Via con me – Castle Freeman


Quando ho visto la foto della casetta di legno immersa nei boschi del Vermont ho pensato: uno che vive in un posto così non può far altro che scrivere quel genere di storie che a me piace leggere. E così è stato. Non conoscevo Castle Freeman, l’ho scoperto per caso sfogliando il catalogo della Marcos y Marcos dove ho trovato  Via con me (2011, traduzione di Daniele Benati). Poi, leggendo recensioni e interviste, scopro che Freeman è uno a cui piace esprimersi in modo breve, veloce, essenziale: ha scritto quattro romanzi sotto le duecento pagine e tiene una rubrica radiofonica “The farmer’s calendar” – un almanacco dedicato agli agricoltori – che dura due minuti.

Mi è bastato leggere qualche indicazione sull’ ambientazione (un piccolo paese nei boschi del Vermont) e sui personaggi (uno sceriffo, una ragazza attraente e determinata, un manipolo di vecchietti perdigiorno che passano il tempo in una segheria abbandonata a bere birra) e dopo poche ore Via con me  era sul mio comodino.

La segheria abbandonata è quella di Alonzo Boot detto Whizzer, costretto su una sedia a rotelle a causa di un incidente nel bosco. È a lui che Lilian (tipetto tosto, lunghi capelli scuri fino alle chiappe, appena mollata dal fidanzato) si rivolge su suggerimento dello sceriffo.  Il problema di Lilian si chiama Blackway, ex vice sceriffo (un bastardo che “significa rogne”)  coinvolto in alcuni  affari di droga che gli sono costati il licenziamento grazie proprio alla testimonianza della donna. Ora lui vuole fargliela pagare. Ma se la legge (lo sceriffo) non può intervenire in mancanza di prove certe (anche se Blackway le ha sgozzato la gatta e fracassato la macchina) la cosa migliore è chiedere aiuto a Whizzer, lui di certo saprà come sistemare la faccenda. Da quel momento si forma un trio composto da Lilian, Lester (un vecchietto che ne sa una più del diavolo e cammina zoppicando) e Nate il Grande (un gigante dall’aria stralunata, “più intelligente di un cavallo ma meno di un trattore”, che continua a ripetere: “io non ci ho mica paura di Blackway”). Il trio si mette sulle orme del molestatore e dopo varie peripezie, incontri con personaggi altrettanto sgangherati e qualche rissa, portano a termine la loro missione.

Il libro si svolge alternando capitoli che seguono la linea narrativa della vicenda e capitoli interamente composti dai dialoghi fra Whizzer e gli altri alla segheria. Dai dialoghi emerge un retroscena di vita di paese, rapporti fra persone, aneddoti e  storie  strampalate che servono a dare struttura alla vicenda principale. I dialoghi sono taglienti, rapidi, mai una parola di troppo: perfetti.

Leggendo il libro le scene mi apparivano nella mente lucide e cristalline. Mi sembrava di vedere un film (magari dei fratelli Cohen) più che di leggere un libro. Scenari e personaggi dipinti con precisione. Mi è sembrato addirittura di sentire gli odori della segheria (legno, birra e gasolio)  e della terra umida del sottobosco.

Via con me l’ho letto in due sere e subito mi è venuta voglia di rileggerlo e poi di leggere qualcos’altro di Freeman, uno scrittore che ha tutte le carte in regola per diventare uno dei miei preferiti.

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