Viet Notes

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Per pochi istanti ho chiuso gli occhi e ho sentito il rumore assordante degli elicotteri sopra la mia testa. Gli scarponi nel fango e il sudore appiccicato dietro la schiena. Tutt’intorno mitragliate e gli occhi vigili dei Vietcong. Non so spiegare perché ho avuto quel momento di allucinazione, d’altronde mi trovavo uno dei posti più magici nei quali sia mai capitato.

Per due giorni abbiamo accompagnato Ryan, il fotografo filippino che si è aggiudicato il primo premio al contest fotografico legato all’International Conference on Nutrition del 2014. Insieme abbiamo girato per boschi e visitato alcuni villaggi.

La vallata che si estende a nord del lago Ba Bể (Bắc Kạn Province, 200 km a nord di Hanoi) è un oasi di tranquillità abitata principalmente da una minoranza etnica Thai. Stretta fra le montagne montagne, la vallata brilla di quel verde intenso che solo i campi di riso riescono a fornire. Gruppetti di case e capanne di legno, recinzioni di bambù, campi di mais, piante di banano. Aggrappati ai pendii, bambù, acacie e un’infinità di altre specie: una vegetazione che da l’impressione di crescere a vista d’occhio. Più in alto il consueto cielo grigio chiaro che a tratti spruzzava sulle nostre teste. Dopo un’iniziale e comprensibile diffidenza, i contadini pescatori e coltivatori di riso hanno aperto i loro sorrisi e annodato il reticolo di rughe sui loro volti. Qualcuno ha accennato un Hello.

È stato allora che mi sono tornati in mente spezzoni di quei film che abbiamo visto negli anni novanta: Apocalypse Now, Platoon… Rambo. Un immaginario rumoroso e sudato di una guerra che non ci hanno mai spiegato bene.

Pensare che quando è stata messa la parola fine a quella guerra io era già nato, me l’ha fatta sentire più vicina. Il trenta aprile di quest’anno si è celebrato il quarantesimo anniversario della fine del conflitto, della vittoria vietnamita. Mi chiedo cosa stia pensando ora Ho Chi Minh, icona onnipresente in ogni palazzo e su ogni parete, anche su quella della trattoria nella quale abbiamo mangiato carne di scoiattolo.

Dopo aver sfoggiato le mie tre o quattro parole in vietnamita, ecco, davanti ai miei occhi, il panorama punteggiato dalle frasi di un articolo del Guardian che avevo letto pochi giorni prima. Un articolo portentoso che già nel titolo sembra voler andare al nocciolo della questione: Vietnam 40 years on: how a communist victory gave way to capitalist corruption. Si potrebbe pensare: non sarebbe stato meglio se avessero vinto gli americani? Quanto meno al danno non sarebbe seguita la beffa. Si sarebbe capito fin da subito di che morte si sarebbe morti. E invece, come spiega lucidamente l’articolo, i combattenti nord vietnamiti hanno lottato e sono morti per un ideale, per un Vietnam in cui tutti sarebbero stati considerati uguali, e ci sarebbe stato benessere condiviso, sì, il socialismo. Cosa rimane oggi di quel’ideale?

È normale che i contadini mi dicano Hello, ma mai come prima ho fatto il possibile per rimarcare il fatto che non sono americano. Magari grazie alla loro collocazione geografica, in quella valle paradisiaca, hanno scampato le atrocità della guerra. Magari invece stavo parlando con gente che ha perso figli, fratelli, genitori, morti mitragliati o per gli effetti dell’Agente Arancio o dilaniati dal Napalm. È stato forse per togliere ogni dubbio di un possible collegamento fra la mia barba bionda e le mitragliate, che ho ripetuto più volte la stessa scenetta: mi avvicinavo dicendo xin chào e poi mi allontanavo dicendo tạm biệt e I’m italian, battendomi la mano sul petto. Me ne rendo conto, strana maniera di esprimere un sentimento patriottico per sganciarmi da un pensiero che quelle persone magari non stavano neanche facendo, occupati com’erano a dar da mangiare al maiale (fette del tronco di un albero di banana) e fare una dimostrazione di pesca (a cesto e a rete) nel piccolo laghetto al centro del gruppetto di case.

È assurdo, me ne rendo conto, ma desideravo fortemente che non ci potesse essere alcun legame fra il mio aspetto e il Napalm Jelly che scortica la pelle, fra le mie mani e le bombe al fosforo che bruciano scavando fino all’osso. Tra il mio passaporto e il fatto che gli americani hanno sganciato più esplosivo in Vietnam di quanto ne è caduto per mano degli alleati sulla Germania.

È che a rileggerli, i numeri, sono sconvolgenti: a fine guerra il nascente governo vietnamita si è trovato a dover gestire una situazione con dieci milioni di rifugiati, un milione di vedove, 880,000 orfani, 362,000 invalidi di guerra e tre milioni di persone senza lavoro. Ma quella guerra, persa sul campo dagli americani, non era ancora finita. Anzi, negli anni che seguirono, dopo un ventennio di pugno duro da parte del governo vietnamita, il quale ha rifiutato ogni tipo di compromesso, col passare degli anni si è trovato a dover cedere alle sferzate di un altro tipo di guerra, una guerra a base di colpi che non puzzano di polvere da sparo ma che hanno la fragranza assuefacente dei dollari. Gli USA sono diventati maestri in quella nuova forma di guerra, un nuovo colonialismo nel quale non si usano carri armati ma uffici agli ultimi piani di hotel a cinque stelle. I nuovi sicari in doppio petto non imbracciano un fucile ma una ventiquattrore e agiscono con la stessa precisione. Sono i sicari della corporatocrazia. Ed ecco che anche il rosso Vietnam è capitolato. [A questo proposito un libro che spiega in dettaglio questi meccanismi e queste guerre invisibili e senza morti (anche se non sempre) è Confessioni di un sicario dell’economia di John Perkins (minimum fax).

Prima di lasciare la valle incantata, a pochi chilometri dall’ultimo villaggio si sta già muovendo una ruspa, la strada sterrata sta diventando nera d’asfalto. Procediamo adagio col finestrino abbassato e un nugolo di ragazzini in uniforme scolastica ci ronza intorno. Molti si avvicinano e tutti gridano hello, hello, how are you? Io li guardo e non posso fare altro che ricambiare il loro sorriso entusiasta. Il futuro del Vietnam è nelle loro mani.

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