Le visite improvvise dei vecchi amici ti catapultano indietro nel tempo e non importa se sono passati dieci o quindici o anche vent’anni. Sembra ieri. Quando ho conosciuto S. avevo ventisei anni, lui ne aveva trentacinque e aveva un figlio di diciassette. Stava con una tedesca ma poi si sono lasciati, lei ha sposato un argentino e ora hanno due figli e vivono in Scozia. Il figlio di S. ora di anni ne ha trenta, è grande e grosso e viaggia sempre first class e gira il mondo a vendere apparecchiature per l’ortodonzia. S. si è presentato con questa ragazza giovane, sono insieme da sei mesi e lui dice che lei gli darà un figlio. Per pranzo comprano un sacchetto di insalata, ci mischiano dentro un cucchiaio di pesto e scuotono tutto, e poi mangiano direttamente dalla busta coi bastoncini. Anche S. è grande e grosso ma non come suo figlio. Quando l’ho conosciuto faceva il portiere di notte in un albergo e ci faceva sgattaiolare dentro per fare il bagno in piscina. Adesso lavora in un posto dove trattano armi ma non mi ha spiegato bene e io non ho chiesto. Si è innamorato della birra Peroni e beve bottiglie da 66 una dopo l’altra. S. è polacco e lo si capisce dal primo sguardo. Ha quella bella faccia rosa coi capelli radi, gli occhi azzurri e lo sguardo furbo. Adesso ha quarantotto anni e si è messo con questa che ha vent’anni meno di lui e io spero che la cosa possa durare ma lui è di quelli che oggi è oggi e domani è domani. E oggi è il giorno che mi è venuto a trovare. E tutto questo in realtà l’ho scritto perché ogni volta che lo vedo mi viene in mente Bohumil Hrabal e allora ogni volta riprendo in mano un suo libro e quando comincio a leggerlo poi non vorrei più smettere perché Hrabal usa più virgole che punti e allora non riesci mai a fermarti. Per esempio questo è l’incipit di Ho servito il re d’ Inghilterra. Queste sono solo le prime due pagine, voi però leggetelo tutto.
Fate attenzione a quello che ora vi racconto.
Quando arrivai all’albergo Praga, subito il principale mi prese per l’orecchio e me lo tirò dicendomi: “Tu qui sei un apprendista cameriere, quindi ricordati. Tu non hai visto nulla e non hai sentito nulla. Ripeti!”. E io dissi che al lavoro non vedevo nulla e non sentivo nulla. E il principale mi tirò l’orecchio destro e disse: “Ricordati però che devi lo stesso vedere e sentire ogni cosa. Ripeti!”. E io ripetei sbigottito che avrei visto e sentito ogni cosa. E fu così che cominciai. Ogni mattina alle sei stavamo sul posto di lavoro, era come una sfilata di moda, arrivava il proprietario dell’albergo, da un lato del tappeto c’erano il maître e i camerieri e in fondo io, piccolo come un piccolo, e dall’altro lato i cuochi, le cameriere, le sguattere e la ragazza del buffet, e il proprietario ci passava accanto e guardava se le pettorine erano pulite e i colletti duri e i frac senza macchie, e se non mancava qualche bottone, e se le scarpe erano pulite, si chinava per verificare con l’olfatto se ci eravamo lavati i piedi, e poi diceva: “Buon giorno, signori, buon giorno signore…”. E da quel momento non dovevamo più parlare con nessuno, e i camerieri mi insegnavano come si avvolgono nel tovagliolo forchetta e coltello, e io svuotavo i portacenere e ogni giorno dovevo pulire il cestello di latta per i würstel perché io vendevo i würstel alla stazione, me l’aveva insegnato l’apprendista di prima che adesso aveva smesso di fare l’apprendista, ormai aveva cominciato a lavorare ai tavoli, caspita, quello avrebbe dato chissaché per continuare a vendere i würstel! A me sembrava un bel po’ strano, ma poi lo capii. Non volevo fare nient’altro che vendere würstel lungo i treni, un sacco di volte al giorno davo due würstel per una corona e ottanta compreso il panino, il viaggiatore però aveva soltanto una banconota da venti, talvolta una da cinquanta, e io ogni volta non avevo spiccioli, anche quando li avevo, e così continuavo a vendere i panini fino a che ormai il viaggiatore non saltava sul treno e si faceva largo verso il finestrino e allungava il braccio, e io per prima cosa poggiavo a terra i würstel e poi cominciavo a frugacchiare in tasca tra gli spiccioli, e il viaggiatore a urlare che gli spiccioli me li potevo pure tenere, ma che pensassi a dargli indietro soprattutto le banconote di resto, e io cercavo con lentezza le banconote in tasca, e il capomovimento già fischiava e io tiravo fuori lentamente le banconote, e il treno si era già messo in moto e io correvo accanto al treno, e quando il treno cominciava a prendere velocità allora io alzavo il braccio e le banconote stavano quasi lì lì per toccare le dita del viaggiatore che si allungava tutto quanto, alcuni si sporgevano al punto che qualcuno nello scompartimento li doveva reggere per le gambe, uno andò persino a sbattere la testa contro una colonna idraulica, un altro contro un pilastro, ma poi le dita si allontanavano velocemente e io rimanevo col fiatone, con la mano allungata e con dentro le banconote che ormai erano mie, erano pochi i viaggiatori che tornavano a reclamare quei soldi, e così cominciavo ad avere dei soldi miei, nel giro di un mese erano già un paio di centinaia di corone, alla fine ne avevo addirittura un migliaio, ma la mattina alle sei e la sera prima di andare a dormire il principale veniva a controllare se mi ero lavato i piedi, e già a mezzanotte dovevo stare a letto, e così incominciavo a non sentire, ma a sentire tutto, e cominiciavo a non vedere e a vedere ogni cosa attorno a me…
5 thoughts on “Visita improvvisa”
Bene, Marco. Ho il libro in mano. Mi serviva una piccola spinta per partire, e questo post è perfetto… Partito!
Un abbraccio e a presto,
Paolo
ps iniziato, e mi sta piacendo. E ancora di più mi piace come hai reso lo stile di Hrabal in questo post – direi quasi che l’allievo [tu] ha superato il maestro [lui]!
Hai ragione Paolo. Questo breve post l’ho scritto in piena trance post Hrabal e post visita improvvisa dell’amico polacco. Non è la prima volta che mi succede: quando la voce di un autore è particolarmente forte è inevitabile che le prime righe che scrivo ne siano influenzate, in modo più o meno inconscio, credo. In questo caso c’è stato un mix di vita vissuta e letta, personaggi in carne e ossa e personaggi su carta. Intanto, buona lettura e grazie per i tuoi commenti. Un caro saluto e a presto!
Ne parlava anche Proust, in un suo famoso saggio su Flaubert, di come la voce di un autore continui a risuonare dentro di noi per un tempo superiore alla lettura (e lui proponeva l’esercizio della parodia come modo per appropriarsi di uno stile, e allo stesso tempo per liberarsi della sua influenza). Sono sempre stato convinto che lo stile non sia un accidente della scrittura, ma la sua stessa essenza; che un particolare stile consenta di dire cose che con un altro stile sarebbe impossibile dire. Nel caso di Hrabal, dalle poche pagine che ho letto, mi pare impossibile dissociare questi periodi lunghissimi, simili a un flusso di coscienza, da ciò che il personaggio principale ci vuole raccontare. E scrivere sull’onda di questa spinta fa bene, perché ci consente di capire cosa “fa” quello stile sul nostro pensiero, come lo modella, quali facoltà gli aggiunge. Nel tuo post, questo recupero del suo stile è riuscito alla perfezione – non è una mera riproposta di un particolare ritmo, ma l’adozione di quel modo di pensare.
E questa è la dimostrazione di come in un contesto blog, anche un post senza grosse pretese possa far scaturire una riflessione più profonda, grazie a lettori attenti e colti come te. Ancora Grazie Paolo.