Prima di tutto l’accarezzo. Passo la mano sul cartoncino grigio e liscio. I polpastrelli scivolano senza attrito. Continuo con un dito fino al cerchio rosso, al centro, impercettibilmente in rilievo, lucido. Frena la corsa. Allora giro la mano dove la pelle è più secca e continuo con le carezze sulla carta. In alto, la scritta a caratteri cubitali WATT non la tocco. Quella va dritta agli occhi.
La prendo in mano, la reggo con due, la soppeso (836 grammi) poi, prima di aprirla, passo ancora una volta il dito lungo il taglio, liscio e preciso. Apro e la prima pagina mi invade di nero. Sulla destra, in bianco, autori, titoli e illustratori. Sulla sinistra, l’intricata ragnatela dei simboli grafici di uno schema tecnico. Rimango qualche secondo a giocare con la messa a fuoco dei miei occhi: guardo l’insieme, poi zoommo sui dettagli, e poi ancora da lontano. E l’immagine si trasforma: una città vista dall’alto, una rete metropolitana. Quando inizio a vedere formiche, ragni, lumache, e le loro striscie di bava, correggo la messa a fuoco e mi butto nei dettagli. Intanto l’odore d’inchiostro mi riempie le narici.
Seatbelt buzzer # horn relay # heater lamps # ignition switch # cigar # radio noise suppressor # dimmer # washer. Il quadro elettrico di un autovettura. Mi vengono in mente alcune stampe di Giulio Confalonieri [per campagna pubblicitaria cucine Boffi, 1967 circa].
Inizio a sfogliare e i miei occhi si adattano al bianco, al nero e al rosso. Continuo e lascio che le illustrazioni mi guardino dritto. Non sposto lo sguardo. Le prime, su sfondo nero, disegnate come con un gesso sulla lavagna. Ancora la mano si avvicina e mi viene voglia di passarci sopra un dito e vedere se si cancellano.
Un cervello disegnato sul fondo di un ferro da stiro. Poi bambini con maglietta e cappellino, e soldatini, rossi. Ciechi, mostri, figure umane, seni abbondanti, frustini e giarrettiere, e l’interno di una bocca. Finalmente una fica. Un apparato genitale maschile, che messo così ti fa ricordare che è solo liquido che passa attraverso tubi. Ancora denti, e poi la forma delle ombre di un bambino. Poi guerra e soldati.
A questo punto torno all’inizio. Faccio scorrere le pagine liberandole con il pollice per un’altra zaffata d’inchiostro.
Nelle pagine dei racconti emergono frasi estratte dal testo e stampate in grande. Tanti piccoli teasers. E allora leggo che = Il passato uccide se lo guardi troppo a lungo negli occhi = e che = Gli stronzi hanno tutti la stessa voce = e ancora = Eravamo due solitudini comunicanti =. Continuo così, leggo solo le frasi stampate in grande, una dopo l’altra. Poi le mischio come in un cut-up Burroughsiano. E allora ne viene fuori che = Era un mezzogiorno di fine aprile trasparente come uno Swarovski = Gli animali sono furbi e preferiscono bighellonare sotto la luna = La testa del serpente era una marmellata di fragole sparsa fra i fili dell’erba = Il verde, per me, è come il colore dei lamenti inascoltati = Vedo arrivarmi addosso una mandria di ciechi = “Salvami! Salvami, ti prego” = La polvere gli volava intorno in uno sciame di lucciole = E devo dire la verità, a me la cocaina m’ha salvato = Se parli a vanvera poi le parole ritornano indietro e ti fanno male = Ci si abitua a tutto, me lo ripetevi sempre. Anche alle brutte notizie = Potrebbe essere l’unica cosa certa che mi accompagnerà per tutta la vita =.
Ancora una volta cambio la messa a fuoco. Mi avvicino al testo, alle parole, ai racconti. Mi metto ad ascoltare la voce dei caratteri stampati. Le grida dei bambini, dei padri, degli omosessuali. Leggo di mostri, superstiti e ciechi, e annuso anche la merda di Amedeo. Passo qualche ora in loro compagnia e mi lascio colpire dal loro scalpello. Ne esco vivo, ma alla fine vedo la mia polvere sul pavimento. Arrivato alla penultima pagina mi accorgo che in basso a sinistra c’è scritto Volume zero, e penso che ho già voglia di mangiarmi il prossimo numero.
L’elenco di autori e illustratori (alcuni nomi noti) è il frutto dell’intensa attività di scouting di Leonardo Luccone [Oblique] e Maurizio Ceccato [Ifix].
1 thought on “WATT magazine”
Pingback: La gamba « Country Zeb