Wooden boulder


Ci vollero alcuni giorni per abituarmi alle notti nel bosco. Andavo a letto sempre molto stanco e mi addormentavo subito. Di notte facevo sogni pieni di immagini colori e suoni che si rincorrevano e che non riuscivo a interpretare. Le notti nel bosco erano piene di rumori, fruscii, strofinarsi di alberi e zampettare di animali. Disteso sulla branda, avvolto nel sacco a pelo, aprivo gli occhi di tanto in tanto e fissavo il telone blu della tenda che mi divideva dal mondo esterno. Ricordo con precisione il blu della tenda che di notte era scurissimo e poi, con l’arrivo del mattino, diventava sempre più chiaro. Anche all’ interno della tenda, col sole che si alzava nel cielo, c’era sempre più luce, ma è dalla variazione cromatica del blu della tenda che mi rendevo conto del nuovo giorno che arrivava. Fino al punto che solo guardando la gradazione di blu sopra i miei occhi ero in grado di stabilire che ore fossero. Al mattino nel bosco, appena svegli, bisogna cominciare subito a muoversi, se no il freddo non ti passa più. Mi mettevo gli scarponi e andavo al lago per sciacquarmi la faccia. Poi scaldavo dell’acqua e la trasformavo in caffè. Dopodiché c’era da andar di corpo. Eravamo organizzati con un’area toilette, alcuni metri oltre la zona delle tende, dove avevamo scavato una buca profonda un metro, in prossimità di due alberi. Ad essi era stata fissata un’assicella che fungeva, appunto, da asse di quel rustico ma efficientissimo gabinetto. A lato avevamo tenuto la terra estratta dalla buca insieme a rami e foglie da utilizzare dopo ogni passaggio alla toilette.  In alternativa, inoltrandosi nel bosco, ogni cespuglio era un potenziale riparo per accovacciarsi.  Oppure sotto uno di quegli alberi con la chioma spiovente che raggiunge quasi il suolo creando una cupola di verde. Oppure ancora, più sfacciatamente, nel bel mezzo di un prato con tanto di vista panoramica. D’altronde, in quei boschi, incontrare qualcuno era evento assai raro anche perché la strada asfaltata più vicina era a parecchi chilometri di distanza.  Una mattina però, alzatomi da sotto la chioma di un abete, vidi una figura che camminava lungo la strada sterrata, pochi metri più a valle di dove ero io. Incuriosito gli andai incontro. L’uomo disse di chiamarsi Nash e, dopo aver scambiato qualche parola, iniziò a raccontarmi la storia di una sfera di legno. Se ben ricordo, la storia faceva più o meno così:

una ventina di anni fa, uno scultore venne informato che nei pressi della sua casa-laboratorio di campagna un’enorme quercia era stata abbattuta dai proprietari temendo che potesse cadere sulla loro abitazione. Allo scultore fu offerta la possibilità di utilizzarne il legno e lui, ben contento, raggiunse l’albero e per due anni intagliò una dozzina di sculture ed estrasse blocchi di legno sui quali avrebbe lavorato in seguito.  Intagliando, scavando e rivoltando ciò che rimaneva dell’albero, notò un grosso nodo dalla forma quasi perfettamente sferica. Ci lavorò intorno per settimane finché riuscì ad estrarre una palla di legno dal diametro di quasi un metro e mezza tonnellata di peso. Ora il problema era come trasportare la sfera fino a casa sua. Decise di sfruttare il vicino ruscello per spostarla, poi l’avrebbe tratta in secco e fatta rotolare lungo la strada fino a casa. Il piano era questo, solo che la palla di legno rimase incastrata a metà percorso mentre scivolava nel ruscello, e non ci fu verso di smuoverla neanche di un centimetro. Lo scultore non si perse d’animo ed anzi vide, in quell’ostacolo, l’opportunità di guardare quel masso di legno da una nuova prospettiva. Lasciandolo in balia del ruscello era come se lo restituisse alla natura e al proprio destino.  L’anno seguente, durante la piena invernale, la sfera si era spostata raggiungendo un piccolo laghetto sotto una cascata.  Lo scultore iniziò a seguire gli spostamenti di quella palla di legno in balia delle forze della natura e divenne il suo biografo, documentando con foto e disegni ogni suo spostamento. Così fece per i due anni successivi, durante i quali il masso di legno si spostò ulteriormente a valle assestandosi temporaneamente in una polla d’acqua. Lì rimase per otto anni, scurendosi, rotolando di pochi metri e levigandosi con l’azione dell’acqua e lo sfregamento sulle rocce, e diventando, essa stessa, una roccia di fiume. Altri anni passarono, altri spostamenti, sempre alla mercé di tempeste e gelate, fino a che rimase incastrata sotto un ponte. Lo scultore decise di intervenire e, con l’aiuto di funi, la liberò per poi rimetterla in acqua dall’altra parte del ponte. Ci furono altre tempeste, inondazioni e la sfera percorse cinque chilometri fino a raggiungere l’estuario in prossimità del mare. Il masso di legno aveva ormai un aspetto eroico, segnato dal tempo e dalle intemperie, e spesso capitava che sparisse per mesi e poi riaffiorasse in una nuova insenatura del fiume. Lo scultore era ormai ossessionato dalle avventure di quella sua opera restituita alla natura e studiava meticolosamente i corsi d’acqua e le maree per prevedere gli spostamenti. Una volta, non riuscendo a trovare la palla per mesi, affisse cartelli segnaletici in cerca di qualcuno che potesse segnalare la sua presenza. Fu avvistata mesi dopo in mare aperto mentre galleggiava a pelo d’acqua come una foca.  Poi però sparì ancora, forse persa per sempre. Lo scultore ancora la cerca. Come un messaggio in una bottiglia è forse destino che non venga mai più ritrovata.

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