Ho sempre pensato che dare, o ricevere, consigli di lettura sia sostanzialmente inutile. Il processo col quale ci si avvicina a un libro, gli si gira intorno, lo si sceglie dallo scaffale e si arriva infine a leggerlo è pieno di magia e mistero. È un percorso fatto di curiosità e aspettative del tutto personali. Ognuno ha il suo modo di arrivare a prendere in mano un libro e immergersi nella lettura, ed è per questo che i consigli possono al massimo far accendere una lampadina, ma non sarà mai sufficiente per farci uscire, in un giorno di pioggia, camminando veloce verso la libreria, con lo stomaco stretto, come chi sta finalmente andando al primo appuntamento con una ragazza dopo settimane di corteggiamento.
Ma ci sono eccezioni.
Nel mio caso, l’eccezione che ricordo con maggior piacere risale all’ottobre 2011 quando, entrato in una delle mie librerie preferite (questa), ho accolto senza esitazione il consiglio del libraio. In quel momento è nata la mia relazione con Breece D’J Pancake. Il libro era Trilobiti, nell’edizione dell’ormai defunta casa editrice isbn: copertina nera, lucida, con l’immagine straniante di due cervi che sporgono i loro musi fuori dal finestrino di un’automobile.
La lettura dei dodici racconti ha avuto su di me un effetto dirompente. Il libro, uscito postumo nel 1983, è subito diventato un cult, guadagnandosi il plauso di gente come Kurt Vonnegut “Si tratta semplicemente dello scrittore più sincero che io abbia mai letto. Quello che temo è che questo gli abbia dato troppo dolore, non c’è nessun divertimento a essere così bravo. Ma né tu né io lo sapremo mai” e Tom Waits “È il mio scrittore preferito“.
Come ho raccontato in questo post, terminata la lettura dei dodici racconti non mi sono arreso al fatto che non ci fosse nient’altro di suo da leggere. Mi sono messo a scavare e ho incontrato “A room forever” di T. Douglass, libro pubblicato dalla University of Tennessee Press e composto da una biografia di Pancake e da una corposa raccolta di lettere che l’autore ha scritto a famigliari e amici.
È stato tramite le sue lettere che ho avuto modo di avvicinarmi al Pancake uomo. In quelle lettere, la maggior parte delle quali rivolte a sua madre, Pancake rivela le sue frustrazioni e i suoi desideri: quelle piccole storie di vita quotidiana che gli hanno permesso di scrivere i suoi meravigliosi racconti.
Tra le lettere, la più toccante è forse quella del 21 Marzo 1978, indirizzata alla Mary Roberts Rinehart Foundation, nella quale Breece presenta alcuni racconti che ha già scritto e chiede di essere considerato per una borsa di studio che gli permetterebbe di continuare a lavorare su altri racconti e su un romanzo. Leggere quelle parole piene di entusiasmo quando ormai sappiamo come sono andate le cose è stato ancora più doloroso.
Come spesso mi capita quando voglio veramente capire un testo, o quando semplicemente voglio passare ancora un po’ di tempo con un autore, mi metto a tradurlo. Finita la traduzione ho provato la sensazione di aver passato un pomeriggio insieme a Breece, non all’autore ma al ragazzo col cappello calato sugli occhi e gli scarponi sporchi di fango.
Poi, grazie alla loro ospitalità, la lettera che ho tradotto è apparsa sul numero 7 della rivista Cadillac.
Infine, ora che tutti stiamo accogliendo con entusiasmo la nuova edizione e traduzione (di Cristiana Mennella) di Trilobiti, uscito pochi giorni fa per Minimumfax, io sono particolarmente contento perché in fondo al libro, a pagina 188, viene riproposta quella stessa lettera: viene riproposto quel pomeriggio di alcuni anni fa passato in compagnia di Breece.
Da non dimenticare che questa nuova edizione di Trilobiti è arricchita da una prefazione di John Casey e una nota di Joyce Carol Oates, entrambi contenuti tradotti da Mauro Maraschi.
E quindi non ci resta altro da fare che ringraziare Minimumfax e alzare il bavero della giacca per incamminarci, ancora una volta, nel West Virginia insieme a Breece.